Il profumo si sentiva dalla curva di Tognarino nel Ponte a Egola. Era un profumo mischiato a quello più forte, più penetrante del ciaccino di olio e sale. Quei profumi: dei pani appena sfornati e del ciaccini caldi, si univano, nell’aria, a quello dei tannini delle conce dei Benedetti, formavano una fragranza di grani, di sughere, di olio cotto.
Quel giorno Meme, mio cugino, mi aveva chiesto di portarlo a vedere il Forno del Brunelli, dove si impastava e si cuoceva il pane. Si doveva far presto perché quando cominciavano a giungere i clienti il fornaio diventava irascibile se vedeva qualcuno fra i piedi, di là dal banco, verso il forno.
All’entrata ci si imbatteva subito nel bancone che era il posto di Egle, una donna con la faccia triste che dava ansia. Dopo il banco, passando sotto un arco in mattoni, si giungeva in una stanza grande e bassa con travi affumicate e tracce di farina sul pavimento. Una discesa di scalini stretta e ripida portava alla bocca del forno e là, curvo, manovrando la pala col manico di legno stava il Brunelli. Infilava grossi pani d’un impasto biancastro spolverati di farina fine. Spesso prendeva fascine da un mucchio fra la bocca del forno e una parete. Allora il riverbero della fiamma gl’illuminava la faccia, la faceva grottesca. Vicino c’era un calore insopportabile. Un metro lontano, gli spifferi della tramontana gelavano dalle finestre senza vetri. Quando ci vide, si aprì in un sorriso ampio e gridò ad Egle di darci un ciaccino. Paolo, questo era il nome del fornaio, mentre lavorava recitava versi del Tasso e dell’Ariosto. E poi se gli andava, tirava fuori l’amatissimo Carducci: “Dolce paese, onde portai conforme / L’abito fiero e lo sdegnoso canto/ E il petto ov’odio e amor mai non s’addorme,/ Pur ti riveggo, e il cuor mi balza intanto.”
Nel ventuno il Brunelli era stato vice-sindaco a San Miniato in una giunta socialista, prima, come ricordava, della “sventurata scissione di Livorno”. Era un uomo semplice ma intelligente. Aveva una calligrafia elegante e scriveva correttamente. Ora faceva solo il fornaio con tanta fatica e pochi soldi. Egle gli rimproverava di non aver fatto un po’ anche il suo interesse negli anni del passaggio della guerra quando la gente per un po’ di pane avrebbe venduto l’anima. No, il Brunelli era rimasto con le toppe nel culo. Aveva sfamato tanta gente senza approfittarsene. Per onestà diceva lui e per fede al suo socialismo; per paura dicevano le male lingue. Durante il fascismo aveva preso il suo bravo bicchiere di olio di ricino, se l'era fatta sotto e aveva passato notti all'addiaccio; ma non per questo faceva l’eroe o si vantava del suo antifascismo.
Per vedere se il pane era ben cotto, rompeva la crosta, affondava le dita nella mollica, ne prendeva una piccola parte e l’arrotolava fra l’indice e il pollice e il medio della mano destra. Se non si sbriciolava al punto giusto il pane non era ben cotto e allora giù moccoli infiorettati. Il pane doveva avere la crosta croccante ma non dura. Né fine né troppo massiccia. La mollica doveva essere spugnosa ma non doveva appiccicarsi al palato. Guai se il colore aveva tonalità marroni da avvicinarsi al bruciato. Quando tutto: la cottura, il colore, il profumo, la forma, era venuto secondo i suoi desideri, allora lasciava che il suo socio e un garzone mettessero i pani nelle ceste e sul bancone. Soddisfatto si sedeva su uno sgabello lontano dal forno. Beveva un caffè nero fatto in casa e tenuto al caldo, e leggeva l’Avanti! Quest’uomo era il mio nonno materno.
Valerio Vallini
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