La Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze ha inaugurato venerdì 21 settembre una delle mostre più importanti mai dedicate a Marina Abramovic’: artista universalmente riconosciuta come icona vivente dell’arte concettuale degli ultimi cinquant’anni. E’ una mostra coraggiosa, che non ha precedenti in Italia. E’ frutto della volontà di Arturo Galansino, direttore generale, che con lungimiranza ha aggiustato il tiro assestando di Firenze fra le tappe europeedelle grandi esposizionid’arte contemporanea chevedono la collaborazione diretta con gli artisti: Ai Weiwei (2016), Bill Viola (2017) e CarstenHöller, l’ultima appena chiusasi su “Manzoni, Fontana e Schifano” (2018).
La mostra occupa tutti gli spazi espositivi del palazzo rinascimentale – Piano Nobile, Strozzina, cortile – in un travolgente percorso cronologico tripartito, dagli anni Sessanta a oggi. Il titolo, The Cleaner, si riferisce a una riflessione di Marina sulla propria vita, di cui, dice: “come in una casa, si tiene solo quello che serve e si fa pulizia del passato, della memoria”.In mostra c’è anche molto materiale inedito, personale che la vede a Belgrado come pittrice figurativa e poi astratta. Già queste sono preziose testimonianze, protomi di quello che Marina sarebbe diventata. La mostra è un corpo unico che comprende pittura, fotografia, video, oggetti e installazioni, insieme a un nutrito corpus di opere performative. E’ anche un lungo ed estenuante, Grand Tour artistico ed esistenziale: dall’ “Autoritratto” del 1965, disegni, volantini, fino ai dipinti delle serie “Truck Accident” (1963) dove l’elemento autobiografico, anche se non esplicitamente dichiarato, è una presenza costante in questa prima fase artistica di Abramovic’.Seguono i lavori: “Clouds” (1965-1970) in cui si ripetono ossessivamente violenti incidenti stradali e le prime sperimentazioni di una “forma” artistica che non sta in nessun contenitore e non trova nessun significante.
È negli anni Settanta che l’artista avvia la sua vocazione. In questi anni l’artista vive e lavora a Belgrado, qui Tito è il simbolo di una resistenza: apre le gallerie, centri ai giovani artisti, e proprio in una di questi a Zagabria che Marina prende parte alle prime azioni come la “Stella di fuoco ” (1974). Sono anni di grande fermento artistico in Europa, c’è il movimento Fluxus, c’è l’Azionismo viennese e la performance è l’avanguardia. Violenta, estrema, minimale, sociologica, la performance di Abramovic’ viaggia in tutta Europa ed è da subito un collegamento con il pubblico che, in molti casi è parte integrante, altre costretta a salvarle la vita dalle fiamme e svenimenti. In altre performance è il pubblico a diventare la minaccia. Si sottomette a tagli, insulti, il corpo è a disposizione oltre i limiti. Comunica con la nudità, con il pericolo, con la paura testimoniato in mostra da opere come la serie Rhythm (1973-1974) e Thomas Lips (1975) in cui l’artista si espone a dure prove di resistenza fisica e psicologica, Art Must Be Beatiful/Artist Must Be Beatiful (1975), dove, nuda, pettina i propri capelli fino a far sanguinare la cute, o The Freeing Series (Memory, Voice, Body, 1975), nella quale mette alla prova la capacità di resistenza individuale attraverso estenuanti azioni ripetitive di parole, suoni e gesti. A Napoli, negli anni Settanta prende parte a una performance che la sacrifica per sei ore davanti a un altare di oggetti- coltelli, corde, una pistola carica - lasciati all’arbitrarietà del pubblico.
Già da queste prime opere si delinea un territorio di sperimentazione illimitato che porterà l’artista e il pubblico a superare sempre nuovi limiti. Abramovic’ ha già avviato quel processo che considera l’arte “trasformazione della materia” attraversando l’utilizzo dicose materiali - gusci di arachide, giocattoli, molliche di pane - spaziano dal recupero dell’oggetto della vita quotidiana di radice duchampiana, fino ad arrivare a queste azioni radicalmente smaterializzanti che ricorrono all’atto vivente, sintonizzandosi sul corpo dell’artista: il sangue, la sua voce, il respiro.
In altri lavori, invece, si cimenta in macabre e soffocanti materialità.Negli anni Novanta il dramma della guerra in Bosnia ispira l’opera BalkanBaroque (1997), con cui Abramović vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, del 1997, che diviene metafora contro tutte le guerre: all’interno di un buio scantinato l’artista pulisce una ad una mille ossa di bovino raschiando pezzi di carne e cartilagine mentre intona canzoni della tradizione popolare serba.
Marina Abramovic’ è intervenuta anche nella regia dire-performance che si alterneranno ogni giorno all’interno dell’esposizione, ovvero, una serie di performance fatte ex-novo, coinvolgendo spettatori e performer diversi, la performance stessa cambia rinnovandosi nei diversi contesti in cui viene eseguita. Infine, grazie alla rinnovata collaborazione di Palazzo Strozzi con l’Opera di Santa Maria del Fiore, due opere (Anima Mundi) (1983/2002) e del video The Kitchen V, Carrying the Milk (2009), che saranno eccezionalmente esposte al Museo dell'Opera del Duomo in dialogo con capolavori come la Pietà Bandini di Michelangelo.Per l’occasione sarà disponibile uno speciale biglietto congiunto (€ 16,00 intero, € 6,00 ridotto scuole) con cui sarà possibile visitare la mostra insieme al Battistero di San Giovanni e al Museo dell’Opera del Duomo.
Alfonso D'Orsi
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