L'imminente avvio della Coppa del mondo di calcio è l'occasione per ricordare che in Russia gli albori del gioco furono contemporanei alla Rivoluzione d'Ottobre
(Questo post è una versione multimediale dell’articolo uscito il 9 giugno scorso su Alias, il supplemento settimanale del manifesto)
Quando la Russia zarista entrò nella Prima guerra mondiale, il calcio era già diffuso nelle città europee dell’Impero e stava dilagando verso il Caucaso, il Volga e gli Urali. I contadini e gli operai che assaltarono il Palazzo d’Inverno nell’ottobre 1917 erano presumibilmente freschi tifosi del gioco arrivato da Occidente. Una volta al potere, i bolscevichi non tardarono a occuparsi del football e crearono, dalle ceneri dei club borghesi, nuovi sodalizi “proletari”, associandoli alle principali istituzioni del paese: CSKA Mosca (esercito), Dinamo Mosca (Ministero degli Interni), Lokomotiv Mosca (Ministero dei Trasporti), Torpedo Mosca e Zenit Leningrado (i maggiori complessi industriali).
Dapprima, il calcio fu oggetto di attenzioni ambivalenti da parte dei comunisti, che oscillavano fra la condanna ideologica di uno sport ritenuto ineluttabilmente diseducativo (il dribbling e le finte erano giudicati turpi inganni!) e i vani tentativi di moralizzarlo attraverso cervellotiche modifiche alle regole. Si trattava in effetti di un altro versante del più generale dibattito sullo sport: tutti concordavano che la cultura sportiva sovietica dovesse propiziare il miglioramento della salute, l’incremento della produttività lavorativa, preparare i lavoratori a difendere le conquiste rivoluzionarie, divulgare abitudini collettivistiche e disciplina, ma a questi scopi, sembravano meglio rispondere combinazioni varie di ginnastica, esercizi fisici correttivi, giochi, escursioni e parate.
Benché fosse altresì unanime la condanna dell’individualismo, dell’ossessiva ricerca dell’eccellenza prestazionale e dello spirito competitivo, prevalse la volontà popolare, poiché le masse amavano il calcio per quello che era. Il Cremlino si convinse che anche il pallone poteva essere sfruttato a fini di irreggimentazione, di ri-orientamento socio-culturale, di compattamento della sparsa identità federale e quale pietra di paragone nella competizione contro il “corrotto mondo occidentale”.
L’isolamento internazionale, retaggio dell’Ottobre e dell’intervento straniero in appoggio ai contro-rivoluzionari nella guerra civile, ostacolò però la crescita tecnico-tattica del movimento calcistico. Senza scambi con l’estero (l’URSS aderì alla FIFA solo nel 1946) e con ridotte occasioni di confronto anche fra le squadre delle diverse città dello sterminato paese, il livello del gioco rimase modesto. Nikolai Starostin, ex calciatore e fondatore dello Spartak Mosca, suggerì allora la creazione di un campionato unico sovietico, la cui prima giornata si disputò nel maggio 1936 – Starostin si spinse ben oltre, proponendo che i calciatori fossero esentati da ogni altro lavoro e per questa eresia professionistica qualche anno dopo si beccò dieci anni di gulag.
Ordinata la parte organizzativa, il football sovietico aveva adesso necessità di progredire tatticamente, dato che ogni squadra mandava in campo due difensori, tre centrocampisti e cinque punte, tutti schierati in linea a replicare la forma della piramide. L’evoluzione verso il più moderno “sistema”, con l’arretramento in difesa del centromediano e il disallineamento degli attaccanti, in Russia sperimentato dal solo Spartak e osteggiato dai vertici del PCUS come una capitolazione di fronte a una tattica capitalista, fu conseguenza di un’altra guerra civile, quella spagnola.
Nel giugno 1937, una selezione basca giunse in Unione Sovietica nel quadro di un tour per raccogliere fondi a favore della Repubblica attaccata dai franchisti. I calciatori baschi costituivano il nerbo della Spagna, che nel 1928 aveva inflitto all’Inghilterra la prima sconfitta contro una rappresentativa continentale e ai Mondiali del 1934 aveva eliminato il Brasile prima di lasciare strada all’Italia padrona di casa. I “sistemisti” di Euskadi furono festeggiati da folle imponenti come campioni dello sport ed eroi della resistenza contro il nazifascismo, ma non si fecero scrupoli a umiliare prima il Lokomotiv e poi la Dinamo Mosca, mettendo a nudo l’inadeguatezza dell’obsoleto 2-3-5 dei russi. L’ultima speranza era lo Spartak e la nomenklatura del partito fece sinistramente sapere a Starostin che era in gioco l’orgoglio sovietico. Rinforzato da alcuni elementi ucraini e georgiani, lo Spartak non deluse e, anche grazie a qualche gentile favore arbitrale, travolse la compagine iberica per 6-2.
Nel 1938 quasi tutte le formazioni della massima divisione si convertirono al “sistema”, inclusa l’ultraconservatrice Dinamo Mosca, che ne sviluppò un’avveniristica versione con fitta rete di passaggi e insistito scambio di posizioni fra i giocatori. Così attrezzato, l’undici dei servizi segreti nel novembre 1945 andò in tournée nel Regno Unito e meravigliò persino i maestri inglesi, vincendo con l’Arsenal e pareggiando con Chelsea e Rangers Glasgow.
Paolo Bruschi