Alla Villa Pacchiani di Santa Croce sull’Arno (1991-1992) una grande mostra diede conto di tutto il suo lavoro di xilografo e incisore. Se ne riparla adesso a San Miniato: la mostra gli sarà dedicata all’Orcio d’oro di San Miniato nel corso del 2024, si parlerà ancora di Giuseppe Viviani, sebbene a ripresentarlo al pubblico degli appassionati abbia già pensato lo spettacolo “Bepi, Vita, fisime e batticuori di Giuseppe Viviani, pittore e arsellaio”, che un attore e narratore pisano, Marco Azzurrini, insieme ad uno dei fondatori dei Gatti Mézzi, Francesco Bottai, ha dedicato al grande artista di Marina di Pisa.
Giuseppe Viviani (Agnano 1898 – Pisa 1965), Bepi – come lo chiamavano gli amici, nell’aprile 1953 lasciò per la prima volta Marina di Pisa, spinto dallo scrittore Piero Chiara. Si avventurò a Luino, poi a Varese e a Locarno, fino addirittura a Parigi. Questo racconta Marco Azzurrini, accompagnato dalle canzoni originali scritte da Francesco Bottai. Fu un momento eccezionale, anche perché “a quaini sèmo bassi, e po’ pelch’e’ Pisani ‘un c’enn’adatti per andà per er mondo a strapazzassi”. La citazione è di Renato Fucini, e fa anche questa parte dello spettacolo e dell’indole e della vita di Giuseppe Viviani, pisano e per certi versi ‘pisanissimo’.
Viviani non aveva frequentato scuole d’arte e poche scuole in genere, ma era straordinariamente dotato quanto a capacità espressive, nella pittura e soprattutto nell’incisione. Soltanto nel dopoguerra raggiunse una fama non provinciale, in particolare quando ottenne la cattedra all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Lo spettacolo racconta il viaggio di Viviani, come scrive Azzurrini: “le sue fisime appunto, le sue manie, le sue contraddizioni e il suo essere ‘timido come i bovi’, come lui stesso si definiva, ma anche i suoi slanci artistici e umani”.
Il progetto teatrale, prodotto dai Sacchi di Sabbia, è stato appoggiato dal Museo della Grafica che dal 2007 è stato costituito a Palazzo Lanfranchi di Pisa e racconta questo straordinario artista, privo di una tecnica accademica, ma forse proprio per questo vicino alla gente, vicino, come mondi evocati, anche ai pittori naïf. Lì la forza della pittura sta proprio nella assenza di conoscenze tecniche, accademiche. In Viviani, l’universo evocato è magico, le figure che lui tratteggia, nel disegno, come nelle bellissime incisioni, sono tutte parte di un universo popolare fatto di poveri personaggi, che si muovono nelle strade e nelle piazze lì intorno, a pochi metri da casa sua, c’è il barbiere, il barista, l’uomo con il calesse, l’arsellaio, il robivecchi, il cacciatore, c’è persino – lì da una parte – un pover’uomo che, come usava una volta, sta facendo un bisognino. Poi ci sono - poetici, struggenti - i ritratti degli animali, i moltissimi cani dagli occhi enormi, un po’ luccicanti, come del resto quelli dei loro padroni, e gli uccelli, poi persino i fiori, anche quelli antropomorfi, con gli occhi e la bocca. Siamo in un mondo tenero, leggero, che sembra quello della Pimpa di Altan, proprio per la semplicità del tratto, la fisionomia di queste bestie e di questi uomini.
Anche quando Viviani si lascia coinvolgere in quadri di guerra, nelle sue, particolarissime crocifissioni, in figure di donne e di bambini: l’immagine che ne nasce è sempre di pacificazione, un’immagine comunque che allude ad un’assoluta serenità, magari con un pizzico di malinconia, per un mondo di povere figurine che comunque va scomparendo.
Non vorremmo essere, comunque, fraintesi, parlando di popolare, di primitivo, c’è ad esempio uno scritto del critico Dino Carlesi che sembra contraddire proprio affermazioni come queste: “tale reminiscenza – scrive Carlesi (che cita a sua volta i giudizi di un grande storico dell’arte, come Enzo
Carli) – la si ritrova soprattutto nella pittura, in quanto dall’opera incisoria si trae la convinzione che la sua formazione sia fondamentalmente ‘colta’ e definibile entro un preciso ambito di gusto e di cultura, a parte il fatto che l’innocenza di Viviani non era un atteggiamento di ‘riporto’, ma una innata attitudine allo stupore” (nel catalogo della mostra di Santa Croce, firmato da Giuseppe Marino e stampato da edizioni ArtCenter, Pisa 1991).
Certo Viviani fu, come tanti toscani e ancor più pisani, polemico, pieno di rabbie e di amarezze, litigioso, ma fu anche un artista che riusciva a restituire poesia a luoghi che sembravano non possederla più, come Bocca d’Arno o la Piazza dei Miracoli. “Amareggiato e orgoglioso – scrive ancora Carlesi – ilare come un fanciullo e improvvisamente tenebroso, Viviani contrappose la genialità del suo talento alle molte incomprensioni dell’accademismo dominante, passando indenne tra pseudoavanguardie e logori tradizionalismi, rimanendo fedele al suo bisogno di legame umano col mondo: per questo legame si fece cantore di cani e di alabastrini da vetrina, degli uccelli e della povertà di una baracca di cocomerai, promosse a ‘dittatori’ i tronchi tozzi degli alberi del viale di Marina di Pisa, sconvolse dimensioni e prospettive per umanizzare i muri di una prigione, per far volare un aquilone, per reinventare una Piazza dei Miracoli più lirica di quella vera”.
La sua vita non fu facile, orfano di padre da quando aveva due anni, protetto da un nonno che costruiva arti artificiali (nelle sue opere compaiono spesso, con effetti almeno inquietanti), svolse poi tanti lavori, restando sempre legato ad un suo sogno espressivo. Se poi questo sogno-bisogno abbia trovato riferimenti più o meno ‘colti’, ci sembra evidentemente meno importante, essenziale è invece il risultato, quello che le sue opere continuano a comunicarci. Certo sì, c’è nei suoi quadri almeno il rapporto con Lorenzo Viani, ad esempio Viviani realizza un’immagine significativa del monumento ai Caduti di piazza Garibaldi a Viareggio, quello appunto di Viani, ma poi tra i due c’è una fratellanza di segno e di intenti poetici. Così come, al contrario, esiste un rapporto oppositivo con Giorgio Morandi, anche lui straordinario incisore. Tutto questo però, ci pare assolutamente marginale, perché l’arte di Viviani rimane assolutamente fuori dalle correnti e dalle mode, soprattutto se vista nella sua complessità (che è anche semplicità).
Così come successe nella mostra promossa dalla Provincia di Pisa e dal Centro di attività espressive di Santa Croce sull’Arno, che alla fine del 1991, realizzarono l’esposizione dell’intera opera grafica, a cura di Giuseppe Marino, con in catalogo, i saggi introduttivi di Dino Carlesi e Pier Carlo Santini. Fu un’operazione di grande spessore culturale, che ha dato la possibilità di riflettere sulla grandezza di questo pittore toscano, di indubbio valore artistico.
Cronaca di Andrea Mancini
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