“Boccaccio per l’etica della comunicazione 2022”: intervista a Lucia Goracci

Lucia Goracci

Lucia Goracci, vincitrice del “Boccaccio per l’etica della comunicazione 2022”, sarà a Certaldo il 10 settembre, tra i protagonisti della cerimonia di premiazione. Inviata di guerra da molti anni racconta di sé con il consueto rigore etico che contraddistingue tutta la sua attività giornalistica, dedicata a ricostruire la verità di un conflitto e di quello che ne consegue.

Goracci e il Boccaccio: raccontare la Storia, il conflitto e il quotidiano, quali differenze o analogie tra ieri e oggi?

Goracci è Goracci e Boccaccio è Il Boccaccio. Lo ricordiamo, lo rileggiamo, da secoli. Ciò detto, le differenze sono molte. Innanzitutto il tempo. Oggi raccontiamo gli eventi in tempo reale, mentre essi accadono. Abbiamo nuovi mezzi – dentro la straordinaria novità, rispetto all’epoca del Boccaccio, che è il mezzo televisivo, l’immagine – che consentono al reporter di scandire l’evento con il proprio racconto, restituendone tutta l’emotività, la drammaticità. Non è solo la diretta, per realizzare la quale, sino a una decina di anni fa, si doveva comunque retrocedere dall’evento, tornare indietro, raggiungere il tetto di un hotel o un altro luogo sicuro, dove enormi mezzi satellitari ci consentivano di andare in onda, ma comunque con il fatto da raccontare già sedimentato, meditato. I nuovi mezzi, carte sim da inserire in strumentazioni piccole e leggere chiamate zainetti, permettono di andare in onda da dentro le cose mentre accadono. Un bombardamento appena avvenuto, con i primi soccorsi; un’avanzata militare, con i civili liberati che ti vengono incontro. Ricordo l’emozione di Hammam al Alil, nelle periferie di Mosul. La popolazione – donne, vecchi, bambini – che tornava a rivedere la vita, la luce, dopo aver trascorso mesi nei sotterranei della guerra, come scudi umani. Sembravano Il Terzo Stato di Pelizza da Volpedo: un ininterrotto fronte umano, vestito di stracci cui la liberazione restituiva colore; la polvere si trasformava in odore; la maschera di morte sul volto, in sorriso. Accendere la telecamera e iniziare a parlare mentre un evento si sta compiendo – con tutta l’imprevedibilità, tipica di un evento di guerra – restituisce intatte la commozione, l’indignazione, la paura o il sollievo. Rende il reporter parte della storia che sta avvicinando. Quanto alle analogie, direi l’etica, come imperativo. Il racconto di guerra deve essere un racconto etico. Perché tra noi e loro la differenza è nel destino. E’ vero, come ho detto poco fa, che soffriamo con loro, proviamo freddo o paura con loro, abbassiamo la testa cercando un riparo, proprio come loro, quando ci troviamo dentro una guerra. Un giornalismo di immersione, che è quello che tento da sempre di praticare. Ma poi, noi a un certo punto ce ne andiamo. Il grado di sofferenza, o di rischio che assegniamo al nostro stare lì, è sempre temporaneo e limitato. Lo decidiamo noi. E a fine missione, rientriamo alle nostre case, al nostro mondo. Loro non possono decidere di andarsene. Loro rimangono.

Quali sono i luoghi o gli incontri che l’hanno segnata di più?

Ho un ricordo commosso dell’Onda Verde di Teheran. Quando, nel giugno 2009, dopo che molti iraniani avevano creduto di poter cambiare le cose con il loro voto ed erano tornati ad eleggere in massa i candidati riformisti Mussavi e Karrubi, in poche ore la notte dell’elezione, fu di nuovo proclamato presidente Ahmadinejad. L’indignazione si aggrumò nelle strade di Teheran. Spontanea, come spontanei erano stati i cortei e i caroselli pre-elettorali. Ma le condizioni erano mutate, repentinamente. Non era più il tempo della libera espressione – se mai lo fosse stato. E iniziò una repressione spietata del dissenso. Assistetti impietrita a scene di inaudita violenza, che anche per noi inviati divenne sempre più difficile testimoniare. La televisione di stato, da dove andavamo tutte le sere in diretta, fu presa sotto il controllo dei Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione; neanche eravamo certi, a fine giornata, nel caso fossimo riusciti a muoverci dentro le proteste degli iraniani senza farci arrestare, di riuscire a trasmettere il nostro reportage. Ebbene, quel grido, “dove è il mio voto?” raccolto nei cartelli in tutte le lingue del mondo, non potrò mai dimenticarlo.

E ho un ricordo vivido e carico di rispetto per la resistenza di Kobane. Quando, nel gennaio del 2015, con l’operatore di ripresa Miki Stojicic con cui ho raccontato più di dieci anni di guerre, entrammo – con un ingresso rocambolesco, correndo tutta la notte dentro la Kobane dei curdi (il racconto più bello, se solo ce lo avessero fatto filmare!), attraversando la frontiera tra Turchia e Siria. Kobane era assediata dall’ISIS su tre lati. Il quarto era la frontiera con la Turchia, sigillata. Kobane resistette all’avanzata dello stato islamico. Sembrava predestinata, invece con l’appoggio dei bombardamenti americani, respinse l’ISIS e passò al contrattacco. Sino alla liberazione di Raqqa, la capitale del Califfato. Sino all’ultimo lembo di occupazione, Baghouz. A Kobane, dormivamo in terra al pianterreno, perché i piani superiori potevano esser colpiti dai proiettili di mortaio dell’ISIS. Il cibo era scarso e il riscaldamento con le stufe a legna, mentre fuori c’era la neve. A Kobane, chi era rimasto aveva imbracciato un’arma, uomo o donna che fosse, per difendere il villaggio. E i cimiteri di guerra si riempivano ogni giorno di nuova terra smossa. Il fronte era la città stessa. Ricordo, il giorno in cui fu liberata la collina di Mishtenur – dove per mesi era sventolata la bandiera dell’ISIS – portarono noi giornalisti, la nostra troupe e la troupe di Channel 4, in cima al poggio ad assistere ai combattimenti. E a un certo punto il mezzo su cui ci avevano sistemati rimase senza carburante. Succede. Ci riportarono indietro a piedi, in una corsa in discesa verso i primi quartieri riparati. Ci salvò, guidandoci, un ragazzo. Quando, due mesi dopo ritornai, perché mi ero ripromessa di assistere al primo nowruz, il capodanno dei curdi, nella Kobane liberata, mi raccontarono che il ragazzo era stato ucciso in combattimento. Ricordo le scuole sottoterra. Ai bambini Kobane continuava a fare lezione negli scantinati delle case. Erano giovani volontarie a insegnare – le maestre, come la gran parte della popolazione, erano fuggite nella vicina Turchia. Non dimenticherò mai l’emozione, al ritorno in marzo, di entrare tra i banchi delle scuole che riaprivano, anche se con grossi buchi sui muri, per i bombardamenti. Ricordo i cadaveri dell’ISIS lasciati a decomporsi ai lati della battaglia. Con le loro barbe nere, bionde, rosse, mi confermarono quanto fosse multinazionale quell’esercito, esteso il richiamo di cui fu capace lo stato islamico. Oggi queste storie sembrano dimenticate. E pure i curdi lo sono.

Qual è per una inviata-inviato di guerra il vero nemico da combattere?

La tentazione chiamata verità. Illudersi di trovarla dentro una guerra. Quando racconto un conflitto, non pretendo mai di cercare la verità – che preferisco lasciare ai filosofi, o agli uomini di fede. In guerra, si ricostruiscono i fatti. Se anche il giornalista potesse camminare sospeso lungo un’ideale linea del fronte, senza essere impallinato, neanche così troverebbe la verità. In guerra, quello che cerchi e che devi provare a ricostruire, con il tuo bagaglio di esperienza, fallibilità e umana onestà, sono i fatti. Una verità approssimativa. Che dipende dal grado di approssimazione che sei riuscito a raggiungere quel giorno all’evento. La guerra è vischiosa e menzognera. Il giornalista è sempre embedded. Sia quando lo è ufficialmente, perché ha firmato carte che lo collocano al seguito di un esercito; sia quando racconta la guerra dal lato della ribellione, o della piazza, mescolato tra i manifestanti. Perché ciascuno, più o meno consapevolmente persino inconsciamente, cercherà di tirarlo dalla propria parte, di vincerne il sostegno alla propria causa. E invece, in guerra non è mai Bene tutto di qua e Male tutto di là. Sempre diffido dei resoconti di guerra che tirino ascisse e ordinate definitive. Percorro guerre da 20 anni, e brancolo sempre più nel buio. Chi racconta le guerre declinando verità, in genere lo fa dal salotto di casa sua.

Alla luce degli attuali scenari storico-politici che la sua professione le ha consentito di esplorare che idea si è fatta del futuro possibile per l’umanità?

A guardare il mondo oggi, solcato da conflitti, carestie, un mutamento climatico che sfugge di mano, quando ancora la volontà politica di fronteggiarlo latita, verrebbe da essere pessimisti. Ma io mi sforzo di cercare sempre il lato positivo delle cose. E vedo il mondo oggi più informato, collegato, consapevole. Giovani generazioni più mobili di quanto non fosse la nostra. Agili nell’uso delle nuove comunicazioni – rispetto alle quali io mi sento un brontosauro. Certo, il rovescio della medaglia, mi si lasci dire, è un più di fragilità e superficialità. Il sapere oggi è spiccio, sminuzzato. Preferivo l’epoca in cui le notizie le leggevamo sui giornali, piuttosto che dentro comunità social, popolate da tribù armate di certezze. Mi spaventa l’uso che i grandi centri di manipolazione possono fare di tutto questo.

Qual è la sfida più grande o più temuta per chi va al fronte per raccontare la guerra, il terrorismo, l’emarginazione, la sofferenza di interi popoli?

Le sfide sono molte. L’etica, innanzitutto. Occorre sempre tener presente – e farlo arrivare al pubblico – che il racconto di guerra non è mai universale, ma sempre condizionato dall’osservatorio che si sceglie – o che talvolta viene imposto dalle condizioni. E che l’osservatorio è decisivo. Raccontare le guerre di Gaza da dentro Gaza o dalle colline israeliane di Sderot, segna una differenza fondamentale. La sfida politicamente meno impegnativa, ma altrettanto cruciale, è arrivare il più vicino possibile agli accadimenti. Quando parti per una guerra, è sempre uno andare controcorrente. La vita è sospesa, i mezzi di trasporto scompaiono, la benzina scarseggia. Quale strada è meno pericolosa? Quali orari? Dove ricaricare le batterie? Dove dormire? In guerra, ci si sveglia sempre all’alba. Quando raccontavamo la liberazione di Mosul dall’ISIS. Miki, Rodi, Karwan ed io lasciavamo sempre Erbil alle quattro del mattino, per essere alle sette sulle prime linee di Mosul. Ci restavamo sino al tramonto, per poi tornare velocemente indietro: in auto, tra i checkpoint e le buche che facevano sobbalzare, riguardavo le immagini e scrivevo i testi. Di nuovo a Erbil, cominciavamo a montare i servizi, per i diversi canali RAI. Questo tutti i giorni. Per quaranta giorni. In guerra il territorio parla. Si diventa cronisti di guerra imparando ad ascoltarlo.

Progetti nel cassetto

Un libro. L’operatore Miki Stojicic mi ha spiegato una volta, che il tempo delle due luci è quando la luce artificiale inizia ad affiancarsi a quella naturale, che se ne sta andando. Non è più giorno, non è ancora notte. E mi ha detto: un cameraman, che sa il fatto suo, la tiene a lungo viva, quella luce. La rende eterna. Credo che il mio libro, il primo, se prenderà vita avrà questo titolo: Il Tempo delle due Luci.

Fonte: Ufficio Stampa

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