Riceviamo e pubblichiamo "Nello studio di Sauro Mori", il racconto di Andrea Mancini sull'artista sanminiatese.
Un "pittore popolare" non popolaresco, vicino alle persone e al loro mondo immaginario: Sauro Mori è un uomo davvero schivo, che rifugge dalla pubblicità e dal sapere critico, senza nascondere una profonda spiritualità e soprattutto la capacità di restituire valore e umanità alle vicende storiche, anche a quelle più quotidiane. San Miniato è tutta attraversata dalle sue opere, che dimostrano la sua sapienza di pittore.
È nato nel 1946 a Isola di San Miniato. Era nipote di un mugnaio, pronipote di un traghettatore, che guidava uno di quei barconi – navi si chiamavano – che portavano i carri e le persone lungo i corsi d’acqua che circondavano il paese. C’era la Nave di Marcignana e c’era quella dell’Isera (come la gente chiamava, e ancora chiama, la frazione di Isola).
All’età di quattro anni, proprio all’Isola, su quel magnifico mulino, dove l’Elsa aveva le sue cateratte, il nonno alzò una sorta di coperchio di pietra e gli mostrò la "gora", l’acqua che, convogliando in un canale, faceva muovere le macine del mulino. Sauro ne fu attratto, quel rumore così forte, quell’acqua così potente, lo chiamavano a sé. Quella volta qualcuno lo teneva per le spalle, ma il suo rapporto con l’acqua sarebbe rimasto, almeno inconsciamente a governarne la vita.
Trovò di nuovo quell’acqua incontrando, anni dopo, anche la donna che avrebbe sposato: Orietta Modé, che da Mantova si trasferì a San Miniato per motivi di insegnamento, ma che vi rimase per amore. Mantova è una città che nel XII secolo l’uomo aveva trasformato in una città isola, e ancora oggi conserva uno straordinario rapporto con le acque del fiume Mincio.
Abbiamo allargato così tanto la premessa, per parlare dell’eccezionalità di Sauro Mori, il pittore che incontriamo questa volta. E partiamo proprio da una ricerca che Sauro ha fatto in rapporto ancora con l’acqua. Quando Orietta, ormai circa quindici anni fa, è scomparsa, Sauro si sentiva perduto (lo scrive molto bene in un libro intitolato “Il poggio coronato”), e è piano piano si è come ritrovato, andando a cercarsi su un lago che assomigliava a quello di Mantova, almeno per il suo carattere artificiale. Ha iniziato a dipingerlo, ogni giorno, in ogni stagione, per decine, centinaia di volte. Cercando di scoprire il profilo di una collina, o meglio di un poggio, “Il poggio coronato”, come lui stesso lo ha nominato. Senza trovarlo mai, un po’ come Monet che in moltissimi quadri ha dipinto le ninfee che aveva nei ristagni del suo giardino.
Sauro Mori ha realizzato un numero impressionante di opere, con tecniche varie, dallo schizzo a matita o a china, fino all’acquarello, all’acrilico, all’olio. Restituendoci l’immagine di un poggio, di una chiesetta che si apre là sopra o di una piccola barca nell’acqua di fronte. Tutto questo a partire da una serie di linee orizzontali, che possono a seconda della loro posizione, allontanare o avvicinare gli elementi in gioco: il colle, con l’ombra dietro della montagna, il lago al centro, la riva in primo piano. Spostando questi orizzonti può sparire la riva, o sparire la montagna dietro, a volte può sparire la chiesetta e apparire la barca. In un gioco di spazi davvero affascinante, che diventa anche gioco di colori e di tecniche pittoriche. Perché a volte la stagione cambia e cambia, nel pittore, il modo di esprimerla. A volte – anche se più raramente – il quadro mostra dei personaggi, dei fantasmi, spesso inquietanti. A volte questi fantasmi assumono i tratti femminili di donne che vengono a visitare l’artista, o almeno la sua immaginazione; sono volti marcati, in primo piano, dai lineamenti forti, ben tratteggiati. Sullo sfondo però rimangono il lago (che è quello di Roffia), il poggio, le barche, la chiesetta. Tutto dipinti a partire da un realismo fantastico che spesso fa sorridere tanta è la dichiarata ingenuità dell’artista. In realtà Mori ha una cultura accademica e ha insegnato Storia dell’Arte per tutta la vita, non manca dunque di una conoscenza dei grandi, anche se ne appare in qualche modo ripulito, si è forse “lavato” nell’acqua della “gora” del mulino del suo antenato e il suo lavoro appare come vergine dalla storia e più vicino a una espressività popolare, che non vuol dire “popolaresca”, ma che si avvicina meglio alla sensibilità delle persone, che possono comprendere il percorso del suo pennello, sempre privo di sbavature o sovrapposizioni cromatiche.
Si pensi ad esempio ad un olio presente tra “I volti della Pace”, in quello spazio un po’ dimenticato che è la cripta della chiesa di San Domenico, dove molti artisti, una ventina d’anni fa, dedicarono le loro opere a uomini e donne impegnati in una forte testimonianza per la pace. Sauro Mori volle rappresentare don Tonino Bello, un vescovo che da Molfetta si mosse in varie parti del mondo, ad esempio a Sarajevo. Il ritratto è molto semplice, mostra un volto con pochi chiaroscuri, i capelli bianchi, le rughe assai evidenti, che formano, al centro della fronte, una vera e propria croce. Come a dire che, nonostante il sorriso, o forse proprio per quello, la Passione di Cristo è al centro della sua vita. È sopra e dietro di lui, nei volti – anche questi sorridenti - del sole, della luna degli uomini che lo circondano.
Nelle chiese di San Miniato e in altri spazi pubblici ci sono altre opere di Mori, che possono illuminare, già da sole, un suo percorso espressivo. Penso ad esempio alla storia dei Vicoli Carbonai, che occupano il loggiato laterale vicino al chiostro di San Domenico. Si tratta di una specie di gioco di caselle che si intrecciano in un viaggio nella storia, con un bisogno di raccontare, che a noi appare più vicino al cinema che alla pittura. Ad esempio in uno di questi riquadri c’è un autobus, che ci fa pensare a certe pellicole del Neorealismo, dove “piccoli meridionali di terza classe” scendevano nei paesi del Nord, ai quali erano via via destinati.
Nella nostra ideale visita a San Miniato, non possiamo dimenticarci degli affreschi, purtroppo molto deteriorati, dell’Oratorio di San Rocco, realizzati da un Mori poco più che ventenne, e anche delle due opere, senza dubbio più mature, stavolta nella chiesa della SS.Trinità a San Miniato. Appunto i due quadri realizzati lungo due colonne delle chiesetta, fanno anche loro parte di una sorta di illustrazione dei fatti del mondo, alla quale Sauro lavora da sempre.
Si tratta di un grande repertorio di immagini di grande semplicità e stupore, come quel bambino che vi è rappresentato – forse lo stesso artista – che osserva un po’ spaventato, un po’ ammaliato, la figura inquietante degli uomini dell’arciconfraternita di Misericordia (la chiesa è appunto loro), nascosti sotto la ‘buffa’, il loro cappuccio nero. Per chiarire meglio il nostro discorso si potrebbe raccontare di come due ben noti registi sanminiatesi, i fratelli Taviani, si lasciarono spaventare - conquistare dalle stesse immagini, che avrebbero riportato nel loro film “Allosansanfan”, con Marcello Mastroianni – il protagonista – che rimane per un attimo vinto dai personaggi mascherati, che assomigliavano a quelli visti dai due grandi artisti, ancora bambini, nella piazza dell’Ospedale di San Miniato.
Fonte: La conchiglia di Santiago
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