Una macchina nuova e qualche 'sfizio' di troppo, così Malika Chalhy diventa l'ennesimo idolo da buttare nella pattumiera della società dello spettacolo. Durante una intervista a Selvaggia Lucarelli per TPI, la giovane 22enne cacciata di casa perché lesbica è stata messa al banco degli imputati per l'utilizzo molto 'spensierato' dei soldi che aveva ricevuto in donazione "per ricostruirsi una vita". La giornalista parla di una Mercedes, beneficenza annunciata e mai fatta, un cane da 2500 euro, acquisti di varia natura con i soldi donati: la polemica è così esplosa in una bella insalata di strumentalizzazioni, perbenismi e tartufismo.
Malika Chalhy ha sbagliato, non c'è dubbio. Quei fondi erano stati probabilmente donati per una causa, quella dei diritti civili, e non per permettere ad una ragazzina di di togliersi qualche "sfizio". Erano simbolo di un problema sociale, non il bancomat di una 22enne. Eppure noi giornalisti ogni tanto dovremmo prenderci "lo sfizio" di fare qualche riflessione.
La prima potrebbe partire proprio dalla fonte della polemica, quella intervista a bruciapelo, una bomba lasciata esplodere in mezzo all'agorà digitale solo per creare scalpore e risentimenti. I toni inquisitori e intimidatori usati verso una 22enne sono l'espressione più becera di un fare informazione che scambia lo scoop per giornalismo, l'immotivata ricerca a tutti i costi dello scandalo, del risentimento gentista, gusto per l'eccesso e un voyeurismo da prima serata. L'obiettivo era suscitare il senso di vergogna e indecenza, lo strumento un giornalismo in paillette. A dimostrarlo è l'accanimento di poche ore dopo, quando oltre alla Mercedes la giornalista ha annunciato "novità sempre più sconcertanti" su Malika Chalhy con tanto di nuovo articolo dove ha segnalato l'acquisto di un cane da 2500 euro, un tassello che non muta la natura della notizia, ma la carica di elementi emotivi e scandalistici (oltre a nuove visualizzazioni sia ben inteso).
La notizia ovviamente è grave e rilevante per l'opinione pubblica, ma i dettagli sono finiti per passare in secondo piano, nessun approfondimento di insieme è stato fatto, nessun tentativo di comprendere le motivazioni anche psicologiche di certi gesti. La cosa più grave è che quell'articolo senza una riflessione è stato semplicemente ingiusto.
Purtroppo nessuno lo ha capito e celermente tutti i quotidiani nazionali hanno dato inizio alle danze: "Mercedes? volevo togliermi uno sfizio", "Mercedes comprata con i soldi della raccolta fondi", "Mi sono comprata una bella macchina", "Mercedes? Non Solo: gli acquisti di Malika" questi i titoli di oggi. Ciò che sorprende è che non ci siano a cavalcare l'onda solo i giornali che remano contro i diritti civili, ma anche tutti gli altri. L'ossessività con cui viene rimarcata la marca di quell'auto è significativo, offusca il fatto che quella macchina sia costata solo 17mila euro (quanto una banale utilitaria nuova), ignora che tra le spese ci siano anche due anni di affitto anticipato e le spese per il dentista, oltre al fatto che in queste ore Malika sta mostrando vecchi bonifici che indicano che della beneficenza è stata fatta poca o tanta che sia. Tutto diventa ombra intorno ai riflettori puntati dritto sul banco degli imputati, come nei migliori show. Lo ripetiamo: Malika Chalhy ha sbagliato, anzi ha addirittura offeso quello che rappresentava, fornendo il fianco a chi oggi usa il suo errore per abbattere i fragili muri eretti con difficoltà nella lotta per i diritti civili. Imperdonabile.
Eppure Malika non solo non ha nascosto di aver comprato una Mercedes, ma si è messa anche in posa sul web postando foto come niente fosse. Questo anche deve far riflettere. Chi scambia questo atteggiamento per arroganza e non per ingenuità forse è in malafede. Sui banchi del tribunale popolare dove si sta consumando la accusatio di una 22enne uscita da un incubo con tanti soldi in tasca forse andrebbe portata anche questa memoria difensiva: è una ragazza di 22 anni, fragile, uscita da una situazione familiare terribile. Questo è un punto decisivo: parliamo di una ragazzina di 22 anni. Cosa ci aspettavamo? Che Malika si trasformasse nella paladina dei diritti civili in Italia? Che fondasse una Onlus? O che diventasse una sorta di filantropo alla Bruce Wayne, magari andando a caccia di omofobi la notte vestita da pipistrello. Ebbene, la batmobile l'ha comprata, ma forse il resto è roba da film. Malika è solo una 22enne che ha visto un po' di luce dopo un periodo buio, e ha fatto la 22enne. Io non mi aspettavo un'eroina, ma una ragazza fragile e al tempo euforica perché ha visto le cose andar bene da un giorno all'altro, con tanti soldi in tasca.
Una ragazzina che noi non abbiamo esitato a dare in pasto alla società dello spettacolo. L'abbiamo lanciata come un oggetto di scena sotto i riflettori, abbiamo cercato lo scoop e la storia strappalacrime, il grande gesto e la grande storia. Abbiamo messo sulla figura di Malika un cartonato di celebrità usa e getta. È stata invitata ovunque era possibile invitarla, rendendola protagonista di una storia che non era più la sua, uno spettacolo di cui era solo comparsa e non protagonista. L'abbiamo inondata di consensi trasformandoli in un televoto di un reality show, più che la presa di coscienza di una battaglia civile. Abbiamo dato false illusioni e miraggi di felicità a buon mercato ad una ragazzina in crisi, riempendole le tasche di soldi. Poi quando ha sbagliato non abbiamo esitato a trasformare il palcoscenico in un banco degli imputati, perché quando si è sotto i riflettori tutto è pubblico e tutto diventa enorme, anche gli sbagli. L'obiettivo è sempre creare un eroe o un anti-eroe, insomma una storia da vendere.
La sensazione è che ci siamo dimenticati per cosa stavamo lottando: abbiamo ricercato ossessivamente il pianto di Malika, i singhiozzi nel suo racconto, la rottura con la famiglia, lo scontro, le atrocità, il sentimento offeso, le esagerazioni, abbiamo mandato in loop sui tg le urla della madre per scatenare ribrezzo e ira. Eppure poche sono state le analisi sul contesto familiare, sociale, sui diritti civili, sulla maturità e sulla tolleranza della società italiana, pochi i quadri di insieme e le mobilitazioni politiche. Nella storia ci sono stati sempre gesti emblematici di individui per i diritti civili, ma questi diventavano simboli di una lotta politica. Oggi sembra che ogni battaglia sociale collassi su una forma perversa di divismo, i riconoscimenti dei diritti soffocati dal voyeurismo.
Malika Chalhy è l'ennesimo cartonato che finirà nei magazzini della società dello spettacolo, ma noi siamo il pubblico pagante. E siamo colpevoli. Il cartellone di spettacoli continua, ma fuori dalla sala ci sono migliaia di Malika che attendono diritti e il riconoscimento sociale della loro sessualità. Che i diritti si muovano in Mercedes o in Panda 4x4, restano diritti per cui dobbiamo ancora lottare. Forse è il momento di chiudere il sipario.
Giovanni Mennillo
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