Nello studio di don Idilio Lazzeri

C’è intanto da segnalare il luogo dove si trova lo studio di don Idilio Lazzeri, un prete nato novant’anni fa, il cinque gennaio del 1931, e diventato sacerdote nel 1953, a ventidue anni. Adesso vive a San Miniato, in un edificio antico che dà direttamente sul Seminario e che era in origine una torre della città. Nella parte bassa, sotto la porta, il nome è ancora quello di Torre degli Stipendiari, ma almeno dal 1700 – quando le mura della Cittadella furono completamente trasformate -, la torre è divisa in due; a metà c’è appunto una piazzetta e un bellissimo camminamento, che scende verso la piazza sottostante. La piazzetta del Castello si trova infatti su questa specie di ponte, aperto sopra a via Augusto Conti e dalla parte opposta sulla suggestiva piazza del Seminario. Il palazzo ha avuto diverse utilizzazioni, c’è adesso la sede del settimanale diocesano, La Domenica, ma sulla targa esterna ci sono scritte diverse indirizzi, compreso una Casa del Clero, che credo non esista più. Don Idilio abita all’ultimo piano, in una posizione davvero singolare, la sua casa ha infatti finestre che guardano dovunque, a 360 gradi, verso ogni parte della città, come si conviene ad una torre d’avvistamento.

Per don Idilio è una specie di dono di Dio, averlo collocato, alla fine della vita (una fine che in realtà si annuncia lontana), in un luogo di così straordinaria osservazione, non può non significare qualcosa, avere un senso che travalica la realtà. Da una parte si guarda al vescovado, dall’altra verso le dolci colline che circondano la città, cioè verso la visione di un paesaggio leonardesco, degno di far da sfondo alla Sant’Anna o all’Annunciazione. Ebbene, tutto questo per un uomo di carattere così appartato, di esigenze semplici, modeste, non può che apparire come un premio per una vita dedicata agli altri, o meglio ad una forte testimonianza evangelica.

Non so quanto Idilio si affacci, guardi da quelle finestre, e da che parti guardi, certo che quando lo vado a trovare non posso fare a meno di ammirare i panorami che si godono da ogni stanza, da quello che è il suo vero e proprio studio – una stanza in fondo assai semplice, con un paio di librerie e un tavolo al centro -, poi dalla cucina, dalla camera e così via.

Credo che davanti a tanta bellezza la sua fede venga in qualche modo consolidata, nella parola, che con voce ferma lo sostiene ogni domenica a Messa, nelle molte omelie che mi è capitato per fortuna di ascoltare, nelle quali lui usa spesso i versi di padre David Maria Turoldo, un poeta amato e incontrato sul cammino della spiritualità.

In tutto questo io avverto qualcosa di unico, come se avessi davanti un testimone, che senza alcun problema racconta la dolcezza del suo camminare sulle orme del Vangelo. Anche adesso, all’inizio dell’Avvento, rilegge le parole del profeta Isaia, è troppo il piacere con cui le ha ascoltate nelle letture di qualche fedele, che non può non volerle ripetere: “Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu ci avevi nascosto il tuo volto, ci avevi messo in balia della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani”.

Non tutti possono interpretare così intensamente queste parole, don Idilio le soffia sul sulle persone che lo ascoltano, offre il senso ultimo del loro significato. Non riesco a ricordare altri sacerdoti che abbiano tale candore, un linguaggio altrettanto puro.

Conosco don Idilio da tanti anni, anche quando era un giovane arciprete di Fucecchio, nei primi anni Settanta, l’avevo incrociato, lavorando a grandi spettacoli per bambini, nella piazza sottostante alla collegiata, piazza Vittorio Veneto. Ma quando ho cominciato a conoscerlo meglio, ormai più di dieci anni fa, ho capito la figura minuta che avevo davanti. Gli ho chiesto di venire a parlare durante il Festival del pensiero popolare, nel quale avevo organizzato una serie di conversazioni a partire dal santo del giorno, era il 10 di agosto, gli chiesi di parlare di san Lorenzo, lui accettò senza alcun indugio.

Alla fine della celebrazione, nella chiesa delle suore clarisse, quella di San Paolo, don Idilio raccontò a lungo di questo santo, o meglio disse subito che – come spesso in questi casi – la sua figura era frutto di tante storie messe insieme: così come ce lo narra la tradizione san Lorenzo praticamente non esiste. Tutta la vicenda del corpo che si rosola sulla gratella, e che il santo invita a girare, è frutto probabilmente di invenzione, così come sono inventate tante altre storie che si incrostano su quella che è la vicenda originale, quella dei testi sacri e dei Vangeli.

Don Idilio non ha mai avuto paura della conoscenza, di sfatare la faciloneria bigotta, se questo significava testimoniare meglio il suo Credo, quello per cui quasi settant’anni fa è diventato prete.

Un prete certo, non un artista, non un poeta, né uno scrittore, ma le sue parole, la lucidità, il calore e il colore con cui le pronuncia, hanno qualcosa che può porlo dentro i nostri interessi.

Ci piace parlarne qui, sceglierlo tra tanti per raccontare un percorso di fede, ci sembra cioè che la vita di don Idilio corrisponda a quella di tanti altri, di cui abbiamo parlato o parleremo. Leggiamo, nel suo incedere ancora così sicuro, un’ombra di follia, la bella follia degli artisti. Lui riesce a creare a partire dalla parola, dal Verbo, anche lui è un “folle di Dio”, se si vuole usare il felice titolo di un bel libro recente, che Mario Lancisi ha dedicato alla stagione, quella ormai non più tanto recente, del cattolicesimo fiorentino.

Un percorso di fede insomma, con un obiettivo espressivo, una vocazione, una testimonianza, a dispetto di quelle che possono essere le amarezze della quotidianità, ma anche le esaltazioni di quelli che sono i giorni belli dell’arte - come quelli della fede -, di chi appunto ha la fortuna di credere.

C’era del resto un laico, un ateo dichiarato, come Indro Montanelli, che sembrava apprezzare molto don Idilio, lui che è stato trentacinque anni – una vita – il prete di Fucecchio, con la casa a pochi metri dal luogo di nascita del grande giornalista. Montanelli spesso chiedeva al sacerdote di celebrare messe in suffragio dei propri parenti, soprattutto per la madre Maddalena e prima di morire dichiarò che, se a Fucecchio il sacerdote lo avesse accompagnato alla sepoltura, lui lo avrebbe ben accolto, non avrebbe protestato. Per questo quando le ceneri di Montanelli si avviarono verso la cappella di famiglia, don Idilio era lì, con la sua fede, semplice e straordinaria insieme.

Per il mio “L’uomo della melagrana” sono stato andato a intervistare don Idilio, giacché il protagonista del mio libro, don Marrucci, era stato suo professore in Seminario: un poeta - diceva Idilio - con un rispetto grande, anche quando le loro visioni del mondo non coincidevano.

Quel giorno Idilio mi raccontò anche del fratello, morto giovanissimo in un incidente stradale, e anche adesso, dopo così tanti anni, lui diceva di non capire quella morte. Perché era toccata a lui? Il fratello era tutto, lui non si sentiva niente.

Chiese a don Luciano di scrivere un pensiero, e lui lo scrisse, Idilio me ne dona una copia. C’è la foto di un ragazzo, parole belle, che vengono dal cuore, parole di don Luciano, che ben rappresentaino – a distanza di quasi settant’anni – anche il suo amico Idilio, il suo spirito gentile.

Cronaca di Andrea Mancini

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