Nello studio di Romano Masoni

Parlare di Romano è un po’ parlare di me stesso: avrò avuto poco più di dieci anni, quando sono rimasto folgorato da quella che fu la sua primissima mostra, in Corso Mazzini a Santa Croce, davanti a Igea, un negozio di scarpe. Sarà stato il 66-67, non lo so di sicuro, perché di quella mostra neppure si parla nelle sue biografie più o meno ufficiali.

Certo allora il paese non sembrava vocato all’arte, dava uno spazio totalizzante alla concia del cuoio e delle pelli, che – a differenza di oggi – nessuno vedeva come un prodotto esclusivo, da firmare e numerare, come fosse appunto un’opera d’arte.

In questo senso il rapporto con la concia non è mai stato invece troppo distante da Masoni, che ne ha tratto ispirazione e danno, poesia e cancro: Pestival, per dirlo con un felice neologismo, attraverso il quale ha creato grandi manifestazioni, mostre, opere di formidabile forza e impatto, non solo visivo.

Più che della sua arte, però, vorremmo parlare qui del luogo dove Romano lavora, chiarendo subito che quei fondi sotto le case servivano nei primi anni del Novecento, come luoghi di concia della pelli, e di tutte le lavorazioni ad esse connesse; ricordo ancora diversi di quegli ambienti, giacché anch'io sono nato proprio in una via parallela, a pochi metri da lì.

In realtà non so se in quell'antro da streghe, situato in Largo Genovesi, popolarmente detto delle centodonne, ci sia stata un'attività conciaria, lo stesso Masoni ne ha ricostruito la storia, raccontando come ai primi dell'altro secolo, in quello stesso luogo, avesse preso vita un'esperienza anarchica e comunitaria, una fiaschetteria bazar, promossa da due figure leggendarie, il Luccio e il Beolino (Gino Giannotti e Rizieri Puccini), un luogo dove si mangiava e si beveva, pagando se possibile.

Nello stesso spazio, dopo il naturale fallimento dell'utopia, prese casa un altro personaggio, tale Ugo Maggini, di origine limitese, maestro d'ascia e calafato, che in queste stanze costruì il primo “gozzo” e le chiatte per traghettare l'Arno. Poi passò a

un altro mestiere, forse di maggiore entrata, cioè il commercio di vini, oli e spezie. Masoni racconta che in certe mattine di primavera – quando va lì per lavorare alla sua pittura - ne avverte ancora il profumo.

Bene, lì davanti c'era il laboratorio dell'ultimo dei personaggi di cui bisogna parlare, era la tana del Nanino (Giuliano Gozzini), un uomo che Romano ha contribuito a rendere leggendario, anche lui legato alla concia, in quanto abilissimo affilatore delle grandi forbici che servono per ripulire le pelli dalle parti difettose, ma più di questo navicellaio, uomo del fiume, cacciatore di ranocchi e di uova di uccelli, narratore di storie e cento altre cose.

Al Nanino sono stati intitolati i giardini sull'Arno, addirittura un piccolo monumento evocativo, il cui scritto credo sia stato dettato proprio da Masoni, che con il Nanino aveva iniziato un dialogo fatto di gesti più che di parole.

Romano è nato e vissuto per 80 anni, quelli della sua vita attuale, proprio in un luogo come questo: con il paese e per il paese. Quando venne fondato il Centro di attività espressive di Villa Pacchiani, lui ne divenne il naturale direttore, dando vita a una stagione artistica e culturale che credo irripetibile. Fino almeno ad una delle sue tante dimissioni. Nel frattempo, prima e dopo, collaborò o fu protagonista dei tanti spazi di utopia che furono aperti a Santa Croce, fino appunto al suo spazio personale, lo studio di via delle centodonne.

Questo luogo è adesso pieno degli oggetti di una vita, alcuni dei quali donati proprio dal Nanino, pesci mangiucchiati, rospi spiaccicati, nidi di qualcosa che è meglio non sapere. A un certo punto sono addirittura apparsi “fantasmi”, che nelle notti d'inverno hanno fagocitato questi strani oggetti, che evidentemente avevano ancora sapore e forse vita.

I risultati di queste singolari escursioni notturne, però ci interessano poco, se non per dire meglio la natura del luogo, Masoni lo ha fatto pieno di opere altrettanto particolari, strane sculture di bende gessate che riguardano la gamba di Rimbaud o l'orecchio di Van Gogh, lo zaino di Kantor o le sorprese di Ulisse.

L'ultimo in particolare, Romano lo costruì per un museo nella conceria, di cui non è quasi rimasta memoria, ma che era stato inaugurato tra il Comune e la Biblioteca di Santa Croce, in un vecchio edificio conciario, appena fuori dal centro storico, uno di quelli che si aprirono tra il 50 e il 60, prima della vera zona industriale, esterna alla parte abitata del paese.

Lo studio è diviso in due stanze, una rettangolare, più allungata, la seconda più squadrata e un po' più piccola, è qui che Masoni in genere dipinge, un luogo forse più interno, nascosto, dove Romano ti porta non sempre, comunque dopo un tempo

dedicato ad una specie di rito d'ingresso, non so quanto volontario o semplicemente improvvisato. La prima di queste stanze ha scritte sui muri, manifesti, fotografie, anche oggetti messi dentro alcune nicchie della parete.

In questo primo ambiente Romano ha realizzato gran parte del bellissimo monumento per santa Cristiana, costruito nell'ultimo anno e magistralmente documentato nel volume edito da Bandecchi & Vivaldi, la sua straordinaria tipografia di riferimento.

Sì, perché la grafica, soprattutto quella d'arte, è parte integrante del percorso espressivo di Romano, al quale bisognerebbe aggiungere anche una mai interrotta esperienza teatrale, che gli ha fatto realizzare spettacoli, ma soprattutto azioni di strada, interventi di animazione che, almeno per alcuni, hanno segnato un'epoca.

La pittura di Masoni è fatta di sogni, di teatro, di poesia che si fa pittura. Ognuna delle sue opere può essere letta oltre che guardata, il suo sguardo si fa sempre lirico, spesso avvolto da segni di tempesta, è una barca che affonda e che nonostante tutto è ancora a galla: una zattera della Medusa, dipinta nei grandi spazi offerti da un reperto di conceria, o nelle dimensioni di un ex voto, ritagliato su un altro pezzo di quercia, frutto magari di edifici consimili, dove tante persone hanno lavorato e - anche loro - sognato un avvenire migliore.

Nello studio c'è tutto questo e anche molto altro, ci sono soprattutto numerose installazioni che hanno punteggiato la sua vita, a rendere ancora più misterioso un luogo già ricco di magia. C'è anche l'ultima, che appare forse più inquietante delle altre, realizzata per il Museo di Calci e non ancora usata (causa Covid 19). Si tratta di alcuni tavoli metallici, sui quali è esposta - come appunto in un museo di storia naturale - tutta una serie di reperti naturali.

Credo si tratti di un vero e proprio omaggio, proprio a quello studio che abbiamo cercato di raccontare. Molte delle cose qui esposte, sul piano dei tavoli, ma anche sotto di esso, con ossa e altri elementi che sembrano attraversarlo, rappresentano la storia di quello spazio, nidi di vespe e di api, antichi copricapi di apicultori, altri oggetti forse inventati, magari falsi, che fanno riferimento alle tante storie che costituiscono l'universo poetico dell'artista.

È come se lui avesse voluto mostrarsi, dimostrarsi in pubblico; come se, approfittando di un museo di storia naturale, si fosse spogliato di ogni sovrastruttura per farsi vedere per quello che è davvero, nell'antro magico dove prepara le sue pozioni, con corpi di rospo e code di lucertola.

Cronaca di Andrea Mancini

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