Il 23 luglio 1967, la città del Michigan fu travolta da una distruttiva rivolta popolare, che ne segnò il destino per molti anni a venire. Vi giocarono un ruolo le tensioni razziali, come oggi, e la squadra di baseball
Nell'estate del 1967, gli Stati Uniti si trovavano impelagati fino al collo nel Vietnam. Centinaia di giovani morivano ogni giorno nel tentativo di domare un esercito di contadini ideologicamente motivati, mentre nelle contrade di casa montava la protesta contro un conflitto illegale e insensato. All'improvviso, la guerra irruppe nelle stesse strade americane. Disordini nei ghetti neri deflagrarono da Est a Ovest, da Sud a Nord: ottantatré persone persero la vita colpite da proiettili, quasi tutte erano civili neri; 29.000 (v-e-n-t-i-n-o-v-e-m-i-l-a!) furono arrestate in un periodo di tre anni.
New York, Newark, Atlanta furono spazzate dal vento della rivolta, ma fu a Detroit che la sollevazione prese le sembianza di una ribellione su vasta scala. Il 23 luglio, i Detroit Tigers si giocavano la testa dell'American League del campionato di baseball contro i New York Yankees.
Si vedeva qualche colonna di fumo che si alzava verso il cielo fra la Dodicesima e Clairmount Street, ma i 30.000 spettatori erano più attirati dall'andamento della partita che dagli elicotteri che avevano cominciato a volteggiare sulle loro teste. Nella notte, la polizia aveva fatto irruzione in una rivendita abusiva di alcoolici, dove poco meno di un centinaio di afro-americani stava festeggiando il ritorno di due di loro dalla guerra nel Sud-Est asiatico. Le forze dell'ordine trassero tutti in arresto, ma nel tragitto verso la centrale una folla consistente ingrossò l'insolito corteo. Alle contestazioni e alle urla seguirono scontri, lanci di oggetti e bottiglie, assalti a negozi e incendi. In primis, la polizia lasciò correre, sperando che lo scoppio d'ira rifluisse spontaneamente, e anche gli organi d'informazione ne tacquero i contorni pensando di sopirne la capacità di diffusione. Invece, la protesta divampò in forme incontrollate e distruttive.
Il cronista del Detroit News Peter Waldmeir si arrampicò sulla cima dello stadio e osservò in lontananza i segni della devastazione. Dall'altra parte, però, sul diamante verde smeraldo, le sorti dei Tigers dipendevano anche dalle prestazioni dei neri Lenny Green e Willie Horton, il quale aveva appena battuto un home run, mandando in visibilio il pubblico, nella stragrande maggioranza composto di bianchi borghesi e benestanti: lo sport poteva ricomporre le fratture razziali?
I neri soffrivano da tempo per le scarse opportunità di lavoro. Erano arrivati in massa dal Mezzogiorno segregazionista e si erano impiegati nella florida industria automobilistica. Nel secondo dopoguerra, General Motors, Ford e Chrysler nutrirono una classe operaia e una media borghesia nere radicate e positive. I salari erano buoni e il lavoro duro ma sicuro. Tuttavia, all'imponente ondata migratoria non si era risposto con un'adeguata politica abitativa. I bianchi ricorrevano spesso alla violenza per impedire che i neri si trasferissero nei loro sobborghi, né affittavano ai neri, i cui alloggi restavano molto al di sotto di standard accettabili. Inoltre, il perimetro urbano aveva preso a svuotarsi: i bianchi lasciavano le loro abitazioni per trasferirsi nelle villette di periferia, dove migravano anche le imprese, riducendo il gettito fiscale per i quartieri del centro e mettendo a rischio le molte attività commerciali di prossimità. Nello stesso momento, forze che sfuggivano al controllo dei regolatori locali destabilizzavano il mercato dell'auto, esposto ora alle prime avvisaglie della concorrenza giapponese. Alla metà degli anni '60, il mercato del lavoro era ancora pesantemente segregato e il tasso di disoccupazione degli afro-americani era quasi tre volte quello dei bianchi.
La famiglia Briggs, che aveva posseduto i Tigers fino al 1956, rappresentava proprio il tipo di razzismo contro cui lottava il nascente movimento per i diritti civili. Fino a che furono proprietari della franchigia, i pochi neri assunti dai Tigers erano adibiti a mansioni servili e la color line era strettamente osservata anche nella composizione della squadra, pur a costo di lasciare ai diretti concorrenti i migliori giocatori – già nel 1948, la polizia aveva arrestato degli attivisti di colore che picchettavano per protestare contro la politica razziale del team. Solo nel 1958, dopo che i tifosi afro-americani ebbero minacciato un boicottaggio, i Tigers ingaggiarono il primo nero, Ozzie Virgil. Nel 1961, i neri nel roster salirono a sei e due anni dopo un altro passo nella direzione della riconciliazione fu compiuto con l'acquisizione di Willie Horton, l'enfant du pays, un nero venuto dal ghetto, ultimo di ben 21 figli del patriarca James, che dall'età di 13 anni fu cresciuto dal leader dei diritti civili Damon Keith e dalla moglie e così strappato alla dura esistenza dei fratelli e sorelle che affollavano una delle case di edilizia popolare assegnate alla famiglia.
Quel giorno, come agli altri, fu detto a Horton di abbandonare in fretta lo stadio e di dirigersi a casa, tenendosi ben alla larga dall'epicentro degli scontri. Horton non poteva farlo, la sua storia era uguale a quella delle migliaia di uomini e donne che avevano dato la città alle fiamme, che sfidavano la polizia, che saccheggiavano i negozi. Comprendeva il desiderio di giustizia e riparazione che ardeva nelle coscienze dei suoi simili. Ancora con indosso l'uniforme da gioco, guidò la sua auto fin nel bel mezzo della ribellione: «Ero spaventato a morte – ricordò decenni dopo -, c'erano persone da ogni parte e poliziotti con le armi in pugno, era come una guerra. Aprii la portiera e salii sul cofano della mia Ford. Non ero passato inosservato, mi riconobbero. “Vattene, non vogliamo che ti faccia del male”, mi gridavano».
Non riuscì a dire niente che distogliesse i rivoltosi dalla loro furia distruttiva. Poteva essere il loro eroe sul diamante, ma laggiù nei bassifondi ormai rappresentava l'establishment, per quanto il colore della sua pelle portasse lo stigma dell'indigenza, della mancanza di lavoro, della discriminazione, della brutalità dei poliziotti. Giusto in quelle ore drammatiche, l'agente Isaiah McKinnon rientrava a casa dopo un turno sfiancante di dodici ore, durante le quali aveva cercato di contenere l'ira dei manifestanti e di bloccare i saccheggiatori. Indossava la divisa ed era uno dei pochi neri nel corpo di polizia di Detroit. Un auto con due colleghi affiancò la sua, lo fecero scendere e lo accusarono di aver violato il coprifuoco: «Stai per morire, negro!», gli urlarono. Ebbe la prontezza di spirito di gettarsi a terra, e il proiettile lo mancò di poco.
La rivolta durò cinque giorni. Quando i fumi del caos si diradarono, apparve che oltre duemila edifici erano stati distrutti o seriamente danneggiati. Interi quartieri erano stati incendiati e i saccheggi erano stati così capillari che sui marciapiedi giacevano allineati vecchi divani, poltrone, frigoriferi, tavoli e altri mobili, di cui i residenti si erano liberati per far posto ai nuovi arredi.
Ci fu bisogno della Guardia Nazionale, della 82esima e 101esima aviotrasportate e dei carri armati per sedare le proteste. Rimasero uccise 43 persone, i feriti furono più di mille e settemila gli arrestati.
I Tigers non riuscirono a superare i Boston Red Sox nell'American League, ma l'anno dopo trionfarono nelle World Series.
Paolo Bruschi