Sotto il segno dello scorpione, primo film a colori dei Taviani, rappresenta uno snodo importante nella loro filmografia. Prima di questo e naturalmente anche dopo, sono infatti accaduti una serie di fatti dei quali occorre tener conto. Da lì in poi i Taviani costruiranno un cinema diverso forse anche da questo, che è un film lontano dal realismo e naturalmente anche dal neorealismo, un apologo di cui proveremo a parlare. Siamo nel 1969, i due fratelli sono usciti, anche con qualche strascico, dal collettivo cinematografico che avevano formato una decina di anni prima; anche di più, se si considera il lavoro iniziale in ambito documentaristico. Non hanno più il loro terzo fratello, cioè Valentino Orsini, che aveva firmato con loro film importanti, come Un uomo da bruciare, il loro bell’esordio, presentato con successo, a Venezia nel 1962.
Prima dello Scorpione, c’è anche un altro film, girato senza Orsini, cioè Sovversivi, ma potremmo considerarlo più vicino alla fase precedente, è infatti ancora un film a episodi, mentre lo Scorpione è un prodotto unitario. Del resto, è a partire da questo film che appaiono alcuni dei nomi fondamentali della cosiddetta Bottega Taviani, oltre a Lina Nerli (la moglie di Paolo) che aveva già firmato altri loro film, sia come costumista che come scenografa, fanno parte del cast tecnico altre due figure essenziali tra le firme dei film successivi, cioè Giovanni (poi Gianni) Sbarra, scenografo e Roberto Perpignani, montatore, che daranno un importante contributo per la realizzazione di tutti i capolavori dei Taviani.
In realtà la scenografia di Sotto il segno dello scorpione è quasi completamente la natura, questa del resto sarebbe stata una caratteristica dei film dei fratelli sanminiatesi, poeti dello spazio aperto, delle visioni d’insieme, poeti appunto del paesaggio, spesso lo stesso che vedevano dalle loro finestre di bambini. Il paesaggio dello Scorpione è in realtà più selvaggio, dovrebbe rappresentare un isola vulcanica, nel mezzo a un mare poco ospitale. Non se ne parla, se non per inciso, tra i “film toscani” dei Taviani, anche se buona parte del film è girato nel Parco dell’Uccellina, alla foce del fiume Ombrone, vicinissimi a Grosseto. Solo alcune scene sono ambientate in una zona vulcanica, forse su un’isola delle Eolie, o comunque in un luogo analogo, giacché in certi momenti si vede il mare, oltre alla roccia vulcanica.
Anche il montaggio introduce a quello che sarà il cinema dei Taviani: primi piani, spesso giocati come sorta di tableau vivant, alternati a campi lunghi, con soltanto poche scene a figura intera, realizzate come una sorta di ripresa più teatrale che cinematografica. La macchina è cioè ferma, sul cavalletto, e inquadra due o più figure che stanno parlando, senza preoccuparsi di chi parla, delle espressioni della faccia e del corpo. La cinepresa resta immobile, come immobili sono i personaggi, scene che assomigliano appunto ariprese di teatro, ma che acquistano anche un significato preciso all’interno del loro linguaggio cinematografico. Sono momenti nodali del film, in particolare quando Gian Maria Volonté, Renno, il capo della tribù che vive già sull’isola, dice ad uno dei suoi: – Io sono sicuro di essere più intelligente di loro.
Come ad annunciare, che non lo è o che comunque “loro”, l’altro gruppo, quello dello Scorpione, appena arrivato sull’isola e guidato da Giulio Brogi, Rutolo, forse meno intelligente, meno raffinato, presto lo farà fuori, prendendo il potere.
Più in là, quasi alla fine del film, quando gli “scorpionidi”sono arrivati sulla terra ferma, dopo aver sterminato tutti gli altri, c’è un altro dialogo tra Giulio Brogi e Steffen Zacharias, nel quale i due progettano il loro futuro. Un futuro parecchio incerto, giacché la scena successiva mostra le donne, che in una sequenza quasi rituale, si legano mani e piedi, prima di suicidarsi in mare, rendendo incerto il proseguimento della specie, con una battuta che dice pressappoco: - Ci sono dodici donne e quasi il doppio di uomini: una donna per due uomini.
Il film ha in realtà poche battute, vive delle scene d’insieme, in modo sinfonico e assomiglia spesso ad una musica concreta, che fa parte integrante della bella colonna sonora dovuta a Vittorio Gelmetti. Gelmetti è un autore che proprio in quel momento cominciava ad uscire dalle composizioni più rigidamente sperimentali, costruendo percorsi di diversa natura, di cui probabilmente Sotto il segno dello scorpione è un esempio significativo. Il film è infatti “composto”, come se fosse un’opera sonora, dove i dialoghi spesso non sono intellegibili, ma sono usati per il loro contenuto di musica concreta, come contrappunto ad altri suoni, quello quasi sempre presente delle onde del mare che si infrangono sulla spiaggia o quello dei versi delle bestie, spaventate dal vulcano, che gli uomini provano ad imitare, del vento e di altre voci della natura, il tutto unito e spesso contrapposto a brani musicali che sottolineano i movimenti e le azioni e che sono comunque di più semplice ascolto. Anche il film è in fondo questo, le scene sono riprese da molto lontano; anche scene importanti, come l’uccisione di Renno, sono risolte come un’azione non del presente, ma diremmo quasi “storica”, provocata magari dal vento e dal movimento delle masse, più che dalla volontà di una singola persona.
L’avevamo già notato per Un uomo da bruciare, l’altro film dei Taviani, con la grande interpretazione di Gian Maria Volonté: i movimenti degli uomini, nella piazza o durante lo sciopero, sulla montagna, assomigliavano a quelli delle formiche, che possono modificare per un attimo la visione del paesaggio, che poi torna ad essere uguale a se stesso.
Il vero protagonista del film è, qui come altre volte, il paesaggio, che in questo caso è più aspro e selvaggio, più inquietante, come quando si passa dalla zona comunque verde, anche se aspra della Toscana, a quella assai meno rassicurante delle zone vulcaniche, con fumi che escono o sono usciti dalla terra. Non bisogna del resto dimenticare che proprio Paolo Taviani ci ha raccontato di aver avuto uno dei suoi primi incarichi nel cinema, dunque all’inizio degli anni Cinquanta, come esperto delle scene di massa, per un film di Carlo Ludovico Bragaglia, un peplum sulla vita di Cristo, intitolato La spada e la croce. Paolo sorride offrendoci questa traccia, come a dire: - La mia esperienza in questo settore non esisteva, ed era frutto di un equivoco! Ma ci sembra che tutto il cinema successivo abbia dato ragione a Bragaglia o a chi aveva assunto Paolo, magari un po’ imprudentemente.
Per quanto possa valere, mi piace poi riportare una mia testimonianza personale di giovanissimo spettatore del film, verso il 1969-70, quando ho assistito alla proiezione nell’affollato cinema di una paese vicino al mio. Non ho capito molto, o forse ho capito quello che c’era da capire (questo mi pare il senso delle dichiarazioni dei Taviani: - La storia che si racconta è semplicissima!), certo sono rimasto parecchio “turbato” (oggi scriverei “interessato”), da molte parti del film, in particolare dalle immagini, dal loro montaggio, dalla musica che le accompagnava, e soprattutto da dialoghi che non riuscivo ad udire, ma che mi parevano importanti proprio dentro un film sostanzialmente musicale, che non avevo strumenti per “vedere”, ma che potevo tranquillamente ammirare, in un’epoca dove ancora il cinema, anche quello più sperimentale, poteva essere visto da platee affollate da persone comuni, che potevano guardare e a volte anche gustare, i film di Antonioni o quelli di Pasolini, e naturalmente anche quelli, allora più rari, dei fratelli Taviani. Scrivo questo perché altrimenti non si capisce il perché di un film come lo Scorpione, che oggi probabilmente avrebbe avuto gli spettatori solo di qualche festival e invece, come del resto San Michele aveva un gallo, il film successivo, il pubblico se lo sarebbe conquistato, ma l’avrebbe comunque avuto. Tra l’altro già che ho citato San Michele aveva un gallo, dico anche che questo è un altro film fondamentale della mia adolescenza, ma anche di quella di molti altri. Si pensi ad esempio che dietro un film importante, come Noi credevamo di Mario Martone, c’è proprio San Michele, il cui protagonista, Giulio Brogi, eroe dell’utopia, è un personaggio simbolo della storia non solo di quegli anni.
Brogi è appunto anche il co-protagonista di Sotto il segno dello scorpione, quello che ad una lettura più superficiale potrebbe apparire il cattivo, il personaggio negativo, ma che alla fine invece si salva, costituisce l’inizio del nuovo e chi lo investe di questo compito è proprio Glaia, la moglie di Renno, la bellissima Lucia Bosé, che rinuncia a morire e chiede di essere lasciata viva, per continuare una storia che è forse solo agli inizi. Glaia decide di ricominciare, insieme a quelli che hanno martirizzato gli uomini del suo gruppo.
Ma quale è il contenuto di questo film pieno di implicazioni di ogni tipo, si racconta già nelle didascalie iniziali: “Il terremoto distrugge un’isola vulcanica. Soltanto pochi dei suoi abitanti riescono a salvarsi. Ma il mare disperde le barche e ne spinge una su un’altra isola: vulcanica come la prima. Devono abbandonarla, cercare una terra sicura, il continente. Ma alcuni vogliono rimandare nell’attesa, ormai inutile, di altri superstiti”.
Si tratta di una favola mitica sullo scontro tra potere e opposizione, lo ha ben scritto Pier Marco De Santi (I film di Paolo e Vittorio Taviani, Gremese, Roma 1988, pp. 67-73): “basato sull’istinto di sopravvivenza come motivo conduttore della storia biologica dell’uomo”. Il film è ambientato in un’epoca remota, extratemporale, un tempo che potrebbe essere quello di un “medioevo prossimo venturo”, alla Mad Max, per citare la serie di film iniziata solo una decina di anni dopo lo Scorpione e che il regista George Miller ha voluto proseguire, proprio nel 2015.
Ma Sotto il segno dello scorpione, lo nota ancora De Santi, potrebbe svolgersi al “tempo leggendario della prima arcadia cantata da Virgilio, ancor prima che Enea raggiungesse le coste laziali; forse in un luogo imprecisato della preistoria, durante l’età del ferro (…). In un paesaggio aspro, brullo, inospitale, immerso o proiettato nella notte dei tempi, aleggia la cupa tragicità della storia, incapace di rivolgimenti categorici, se non attraverso orribili avvenimenti: una storia vecchia come il mondo, universale come un mito. In essa lo spettatore procede attraverso un percorso non lineare, perché non lineari sono la vicenda del film e l’andatura persino di quell’aracnide sotto il cui segno tutto accade”.
L’isola, il cui paesaggio è, l’abbiamo detto, il vero protagonista del film, è abitata da un gruppo guidato da un capo saggio, Renno, che ha la faccia e il comportamento ambiguo di Gian Maria Volonté, un attore mai a senso unico, che offre dei suoi personaggi (come il Salvatore Carnevale di Un uomo da bruciare), una visione molto complessa. Sull’isola appaiono a un certo punto un gruppo di soli uomini (gli altri hanno anche le donne, e subiranno una sorta di “ratto”, come le Sabine degli antichi romani), che non sono intenzionati a restare fermi in un territorio dove, anche se nascosta, c’è ancora la minaccia di un vulcano.
Il dissidio tra i due gruppi prende la gran parte della pellicola, a un certo punto, il gruppo degli “scorpionidi” racconta esagerandola la vicenda di morte dell’eruzione che hanno subito da poco: - Date spettacolo – dice Brogi – come se l’isola stesse per saltare davvero”. Un gioco che sarà ripetuto anche dagli altri, e che a noi fa pensare ad altri film dei Taviani, in particolare a Padre padrone, al quale lo Scorpione, rimanda per molti versi, soprattutto per la arcaicità e anche la ritualità della vicenda, risolta ad esempio, anche per il gruppo guidato da Giulio Brogi, con una danza tribale, che non a caso usa i campanacci di Ottana e Mamoiada, dei Merdules e Mamutones sardi, provenienti direttamente da un’epoca addirittura pre-romana, punica magari, o forse ancora più antica.
Del resto una danza (due passi avanti, uno indietro) è anche protagonista di un altro film importante, come Allosansan, il film con Marcello Mastroianni e verrà ballata in modo straordinario anche andando incontro alla morte, come i trecento di Sapri, guidati da Carlo Pisacane.
“La sequenza - scrive ancora De Santi per lo Scorpione - è visualizzata, per la prima volta nel film, con una lunga e difficile carrellata, al termine della quale la danza aggressiva, scandita dall’acre e provocante suono dei campanacci, diventa il manifesto della gioia dell’utopia”. Nel senso che il gruppo dei “cattivi”, ribalta, almeno nel giudizio degli spettatori più attenti, la propria condizione, certo sono violenti, a volte anche antipatici, ma possono provocare un cambiamento nella società, un po’ come certi leader di un Sessantotto, in quel momento ben presente ai due registi. Forse che la rivoluzione, almeno delle coscienze, non poteva avere un cammino lineare, che raccogliesse la simpatia di tutti, ma doveva, o poteva, avvenire solo in termini conflittuali. La figura di Glaia che accetta, appunto, questo stato di cose, ci pare non possa essere interpretata diversamente.
In uno dei molti dialoghi col pubblico e con la critica, realizzati negli anni dai fratelli Taviani, ci sono alcune frasi di Vittorio che ci paiono significative: “Noi abbiamo vissuto gli anni del ’68 con tutta l’appassionata partecipazione della nostra generazione. Con Sotto il segno dello scorpione teorizzavamo, addirittura come uomini di cinema per i quali la tensione politica è soltanto un retroterra, che poiché il pubblico era stato addormentato da un certo tipo di film soporiferi, era necessario con i nostri film dargli un cazzotto sul naso: certo il pubblico si sarebbe ribellato, ma era quello che volevamo: il trauma lo avrebbe fatto balzare sulla poltrona e probabilmente avrebbe cominciato a porsi degli interrogativi.
Queste sono posizioni estreme, e hanno il valore del tempo in cui sono esplose. Importante è che poi il film, una volta realizzato, non sia scomposto come un cazzotto sul naso. E’ stato un periodo forte, libertario, fondamentale, una grande esperienza del dopoguerra, dopo quelle del neorealismo. Ma il movimento del ’68 aveva in sé gli elementi della sua fine; in fondo era un grande desiderio utopico che non aveva radici in masse più larghe, era tutto sommato elitario e non poteva realizzare i sogni immensi e meravigliosi che si era proposto”. (Cinemasessanta, n.3, maggio-giugno 1998).
In pochi casi i Taviani hanno impegnato gli stessi attori per più di un film, c’è l’eccezione del formidabile Omero Antonutti, protagonista di molte pellicole degli ultimi trenta-quarantanni: da Padre padrone a La notte di San Lorenzo, e poi c’è appunto il caso di Giulio Brogi, protagonista in quattro film di Paolo e Vittorio, cioè
Sovversivi, Sotto il segno dello scorpione, San Michele aveva un gallo, Il prato. Mentre Antonutti incarna la figura del padre, anche quella del padre dei due registi (in San Lorenzo) Brogi può ben rappresentare un loro coetaneo (solo di qualche anno più giovane, del 1935), e ne incarna anche lo spirito utopico e probabilmente molte altre cose. Tra l’altro Giulio veniva da una famiglia toscana, ed era parente dei Taviani (la loro madre si chiamava appunto Jolanda Brogi), anche se era nato a Verona. Si veda per questo il libro di Rinaldo Olivieri, Architetto e scenografo. Rinaldo in campo, a cura di M.R. Olivieri e A. Mancini, Titivillus, Corazzano 2008, dove Brogi racconta le sue origini e l’allontanamento del padre, dopo che nel 1921, ad Empoli era stato coinvolto nella morte di alcuni marinai, uccisi perché scambiati per squadristi. Nel 1969 Brogi era ancora un attore abbastanza giovane, e solo un paio d’anni dopo avrebbe avuto un formidabile successo, come protagonista nella serie televisiva, poi ridotta a film per le sale, diretta da Franco Rossi e dedicata al mitico Enea, di cui il film dei Taviani potrebbe essere stato una specie di prologo. Oltre a Brogi lo Scorpione usava molti altri attori alle prime armi, spesso giovanissimi, come Alessandro Haber, Olimpia Carslisi e Piera Degli Esposti, Massimo Castri e Antonio Piovanelli, che avrebbero avuto successo soprattutto in teatro. Tra l’altro nel cast si riconosce almeno Vittorio Taviani, non nuovo a piccole apparizioni nei suoi film.
La critica non fu tenera con il film, in molti, durante la prima veneziana molti si sentirono presi in giro, si arrabbiarono con i registi (che magari volevano proprio questo), anche se alcuni parlarono dello Scorpione con ammirazione, tra questi non si può non citare Guido Aristarco, che quasi dieci anni dopo, intitolò il libro sui Taviani, proprio come il film: Sotto il segno dello scorpione (D’Anna, Messina-Firenze 1978), a cui Aristarco dedica il capitolo “A cavallo del maggio” (pp.87-100) e il “maggio” è quello francese del ’68.
Scrive Aristarco (p. 88-89) “In Sotto il segno dello scorpione – opera espressivamente la più matura rispetto a quelle in precedenza dirette dai Taviani – le immagini preoccupate di problemi stilistici non sono mai messe da parte; anzi questi problemi appaiono ancor più vivi e presenti anche nell’impiego del colore, e non certo per abbellire una realtà estremamente complessa e grondante sangue, ma proprio appunto per amore del vero”. E ancora, più in là (p. 90): “L’abbandono di ogni residuo autobiografico porta qui al film corale, alla esclusione del personaggio – dei personaggi individuali -, a un cinema ejzenstejniano, del primo Ejzenstejn, dove appunto la massa, la collettività sono protagoniste, e la lotta di classe è il motore della storia”.
L’ultima battuta del film è quella della Bosé, che dice appunto: - Non mi ammazzate – aprendo ad una vita nuova, certo diversa dalla precedente. È un segnale chiave per l’intera pellicola, ci sarà poi un’ultima immagine, della comunità che costruisce la nuova città, poi – come nota ancora Aristarco (p.101) - c’è l’urlo della frase musicale, una volta che i sovversivi delle isole sono giunti sul continente”. E ancora Aristarco conclude citando altre frasi musicali significative nello stesso film, in particolare quelle di un altro momento altrettanto epico, analogamente al finale, cioè le parti sonore che esplodono durante l’eccidio, l’uccisione degli uomini della vecchia guardia, quella che tendeva al mantenimento dello status quo, restando cioè sull’isola e aspettando, magari una nuova eruzione del vulcano.
Andrea Mancini
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