La Cassazione dà ragione all'operaio che fu licenziato per la chat whatsapp

La Cassazione ha ribadito l'illegittimità del licenziamento per un'operaio fiorentino reo di aver scritto messaggi "particolarmente severi" nei confronti dei suoi capi, utilizzando "frasi dure e pesanti, magari volgari", all'interno di una chat aziendale su WhatsApp chiamata "Amici Lavoro", che condivideva con 13 colleghi. A darne notizia è il Corriere Fiorentino.

I fatti erano avvenuti nel 2018. Credeva di sfogarsi tra amici, ma il suo sfogo gli era costato caro. Uno dei colleghi in chat aveva tradito la sua fiducia, facendo trapelare i contenuti e denunciando il collega al capo del personale. La conseguenza era stata immediata: il 40enne aveva ricevuto una lettera di licenziamento, con le frasi del messaggio vocale considerate "offensive, minacciose e ingiuriose". Ma l'operaio non si era arreso e aveva impugnato il licenziamento. E la Cassazione gli ha dato ragione, annullando il provvedimento e reintegrandolo nel suo posto di lavoro, con tanto di indennizzo per i mesi di mancato impiego.

Per gli ermellini, il licenziamento è stato "illegittimo" e l'operaio ha subito una "violazione del suo diritto alla riservatezza". WhatsApp, in pratica, è stato considerato un luogo "coperto da segretezza", anche se condiviso con 13 persone. I giudici di Piazza Cavour hanno accolto le indicazioni della Consulta, che ha distinto le chat e le mail dai social network, dove i contenuti sono pubblici. Per la Cassazione, chi usa WhatsApp ha "aspettative di segretezza e riservatezza", come se si trattasse di "una lettera imbustata e spedita al mittente". La riservatezza, che nella corrispondenza tradizionale è garantita dalla busta chiusa, nelle mail è assicurata dai codici personali, "mentre il messaggio Whatsapp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch'esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione". In definitiva, per la Cassazione, il datore di lavoro non ha "un potere sanzionatorio di tipo meramente morale" sui dipendenti, che limiti "spazi di libertà costituzionalmente protetti, come quello concernente la corrispondenza privata".

La Corte d'Appello di Firenze aveva già dato ragione all'operaio, e ora la Cassazione ha messo la parola fine alla vicenda, sottolineando che non c'erano state "minacce" o "diffamazioni". "La società ha appreso il contenuto della corrispondenza, destinata a rimanere segreta, su iniziativa di uno dei destinatari della stessa; nondimeno, tale iniziativa costituisce violazione del diritto alla segretezza e riservatezza della corrispondenza avvenuta in danno del dipendente".

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