Novantotto dipinti di Arturo Checchi sono stati acquistati dalla Fondazione CRSM

Un evento da segnalare, quello raccontato da Antonio Guicciardini Salini, come premessa al catalogo della mostra: ben novantotto dipinti di Arturo Checchi sono stati acquistati dalla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato. Si tratta di un’operazione di imponente valore culturale, che non può e non deve passare sotto silenzio, anche perché Checchi è uno dei maggiori pittori del 900, un suo museo diventa oltremodo necessario; naturalmente dovrà essere uno spazio vivo e vitale, che possa attirare i pubblici delle grandi occasioni.

C’è una sala, subito da segnalare in questa bellissima mostra ospitata a Palazzo Grifoni di San Miniato, è quella dei nudi. Le tante donne qui ritratte, sono un inno alla bellezza, ma anche al colore. Non hanno niente del naturalismo, che spesso viene dedicato al corpo femminile, i toni sono sempre quelli del verde, con una copertura di giallo e di bruno, tanto da ottenere dei ritratti quasi astratti, certo assai poco realistici. Attraverso questi nudi, che ci sembrano rimandare a certe opere dell’espressionismo tedesco, ad esempio quelle di Kirchner (si vada a vedere il “Nudo disteso davanti allo specchio”, 1909-10), si può leggere molta pittura di Checchi, la maggior parte dei quadri che possiamo ammirare in una mostra di così imponenti dimensioni: la “Donna sdraiata al sole” (1952), o “Incontro di tre ragazze” (1969), ma anche quelli più antichi, le opere storiche come “La mamma in poltrona” o “Teresina che pettina la madre” (1939), uno splendido olio su tela, risolto con una serie di campiture di colore che dividono il quadro in precise porzioni, che esaltano il centro dell’opera, dedicato al primo piano della donna che si lascia pettinare; poi ancora i bellissimi tramonti, i crepuscoli degli anni 60 o “Zena con cappello giallo sul mare” (1960), anche stavolta vicina ad alcune tele della corrente Die Brücke , cioè di nuovo Kirchner, ma anche Schimidt-Rottluff, Bleyl ecc., con un rapporto che li lega alla pittura classica e un cromatismo molto forte, che riesce ad accendere le immagini rappresentate: il segno pare inciso, il colore accentuato, acido. Sono tutti aggettivi legati all’espressionismo, ma che ben si adattano ai quadri di Checchi, che li illuminano di rapporti importanti, di influenze fondamentali, o se non di influenze, almeno di paralleli. Si pensi, prima di chiudere il discorso, anche ai tanti autoritratti che Checchi realizzò: in mostra ce ne sono alcuni che risalgono agli anni 20, per proseguire fino alla fine, con un piccolo quadro del 1970. In ognuno di essi si sente un’inquietudine di fondo, essi sono realizzati con un coraggio espressivo, che ce li rende davvero vicinissimi, quasi corrispondessero all’angoscia contemporanea, al male di vivere che sempre di più ci attanaglia, di fronte ad un mondo troppo colmo di incertezze.

Nel catalogo della mostra, pubblicato da Aión editore, per la Fondazione Cassa, Maurizio Fagioli scrive: “Il posto che Arturo Checchi occupa nell’arte toscana e quindi italiana del Novecento rimane sostanzialmente ancora da definire. Collocato nell’area postmacchiaiola dai più, definito fauve, secessionista ed espressionista da altri, Checchi è un pittore che rimane difficile da inserire in un’area esclusiva e soprattutto tali collocazioni seguono delle fasi cronologiche diverse del suo lavoro, da quella post macchiaiola a quella successiva al ritorno dalla Germania (Monaco), dal Novecentismo tra le due guerre, a una modernità intesa come dialogo con la tradizione del secondo dopoguerra”. Fagioli, come al solito, scrive un saggio molto colto, pieno di citazioni e soprattutto di smentite, non c’è una corrente o un pittore che l’abbia davvero influenzato, Checchi è un caposcuola, con una declinazione espressiva “comune ma non appartenente al linguaggio fauve ed espressionista”.

A noi sembra che il tratteggio dei possibili influssi che Checchi dovrebbe o potrebbe aver subito, non sia importante: il pittore c’è, ed è uno dei maggiori della sua epoca. Siamo sicuri – senza tema di smentita – che non abbia concorrenti almeno nel nostro territorio, per questo e, favoriti da una ghiotta occasione come quella fornita dalla mostra di San Miniato, siamo tornati a parlarne (l’avevamo già fatto su questo giornale il 31 ottobre 2021).

Occorre adesso che venga realizzato un museo che ne studi l’evoluzione, che realizzi mostre che possano dar vita ad alcuni interessanti raffronti visivi. Checchi era fucecchiese, anche se nei primi anni del suo lavoro, insegnò storia dell’arte anche a San Miniato, il suo patrimonio si trova adesso quasi tutto diviso in queste due città, con la Fondazione Cassa di Risparmio che ha un’ottica che va ben oltre la città di San Miniato. Ci sembra insomma che l’occasione sia a dir poco eccezionale. I due sindaci, e se possibile anche altri sindaci vicini, devono operare affinché questo patrimonio straordinario abbia la giusta valorizzazione, insieme naturalmente a tutti quelli che hanno, in questo caso, voce in capitolo. Crediamo che la Fondazione Cassa possegga il patrimonio più consistente, seguono altri, cioè il Comune di Fucecchio, il Museo Civico e Diocesano e la Fondazione Montanelli Bassi, ancora di Fucecchio, più una piccola serie di privati, almeno nella mostra compaiono i nomi delle famiglie Modesti, Leo, Morelli e pochi altri.

Guicciardini Salini nel saluto di cui abbiamo parlato all’inizio, ha fatto riferimento alle due mostre su Bruno Innocenti (2011) e su Quinto Martini (2021), organizzate dalla Fondazione Cassa, per confermare “la… vocazione alla difesa dell’identità storica, culturale e artistica del territorio”. Ci sembra però che nel caso di Checchi, oltre a questo ci sia qualcosa in più, c’è la proprietà di un patrimonio di inestimabile valore, se non economico, almeno culturale. La bellissima mostra realizzata a San Miniato ci pare però una piccolissima cosa, rispetto a tutto quello che potrebbe essere fatto. Partiamo dal basso - da un semplice “artista fucecchiese” - che può invece dimostrare come il rapporto con i grandi dell’Europa possa nascere anche a partire dalla provincia, in un discorso semplicissimo, ma anche di notevole complessità, nel quale si potrebbero agevolmente inserire molte altre figure di artisti provenienti da un’area più o meno vasta, anche loro quasi tutti dimenticati. Non è il caso qui di fare nomi, ma è semplice immaginarne alcuni, che sono stati in rapporto con la grande arte internazionale, o che da essa hanno tratto spunti e derivazioni.

A proposito di questi pittori si dovrà ad esempio indagare se Arturo Checchi, che è morto a Perugia in anni abbastanza recenti (nel 1971), sia stato in un qualche rapporto con la loro arte o almeno li abbia frequentati e conosciuti.

Andrea Mancini

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