Viaggio nello studio di Luigi Viti a Le Mura di Montaione, a cura di Andrea Mancini
Un grande artigiano dell’arte, questo è Luigi Viti (1964), un uomo che opera indifferentemente in ogni settore espressivo, dando ogni volta prova di straordinaria capacità tecnica e manipolatoria. Particolare predilezione la sua, per i grandi temi della pittura sacra, ma anche di quella civile. Sempre schierato dalla parte degli oppressi: la violenza in fondo è la stessa, quella contro Cristo, come l’altra - più recente - di regimi che hanno attraversato il 900 e che purtroppo ci accompagnano ancora adesso. Anche questa sua poetica viene dagli insegnamenti di Gino Terreni, per lui maestro d’arte, ma anche di vita. É, come spesso accade, un artista molto schivo, completamente fuori dai temi – spesso fuorvianti e a volte un po’ frivoli attraversati dalla contemporaneità. La sua pittura è quella più antica, fuori da ogni tendenza, che non sia di aderenza assoluta alla rappresentazione della realtà ed eventualmente dei suoi momenti felici, più spesso dei suoi drammi. Insomma, un uomo poco interessante, almeno secondo una tensione critica che privilegia chi con l’arte riesce a sfondare il muro di indifferenza, che attraversa un oggi di espressività sempre più confusa. Non c’è in Viti lo spirito di chi arriva a sposare e soprattutto a ritrarre l’elemento dello scandalo, ma forse è proprio questo che ce lo rende interessante e che ce lo fa segnalare.
Il legarsi di Viti ad una tradizione della pittura toscana, che parte dai grandi artisti del Rinascimento (e magari anche da qualcuno prima, come Duccio o i primitivi senesi) e che, senza soluzione di continuità, può arrivare fino ad oggi, a patto naturalmente di guardare e riguardare con interesse anche alla grande figuratività di pittori più recenti, da Annigoni appunto fino a Terreni, pittori cioè che non cercano l’effetto (che a noi comunque interessa), ma che si sono legati alla tradizione figurativa, fatta di grandi e di grandissimi, da Masaccio appunto, a Pontormo o a Rosso Fiorentino, per citarne solo tre che amiamo particolarmente. Dicevamo di Terreni, Viti è forse l’allievo privilegiato di questo straordinario pittore e soprattutto insegnante, “maestro” – mai il termine fu tanto giusto, originario, come del resto Viti, della campagna vicino ad Empoli. “Gino Terreni – ha detto proprio Viti – ci invita a vivere l’arte per la nostra salvezza e, da combattente, ha voluto liberare il popolo dai tiranni; le nostre opere d’arte, lasciate poi, ci daranno la vita eterna…”.
Una visione, solo apparentemente singolare, ma che invece ben si sposa con la sua pittura e prima di essa con quella di Terreni: “Oltre alla lezione imprescindibile proveniente dai grandi del passato – ha scritto Gabriella Gentilini, in un catalogo dedicato a Luigi Viti –, il nucleo centrale del messaggio che Terreni ha testimoniato e tramandato ai suoi ‘discepoli’, è racchiuso nell’esempio di vita, vissuta cristianamente, nel desiderio che deve essere impegno di fraternità e di pace”. Nelle opere che Viti ci mostra c’è, inutile dirlo, proprio tutto questo, soprattutto quando i suoi interventi sono destinati alle chiese del territorio. Penso ad esempio a San Domenico a Prato, dove ha usato la terracotta, o alla chiesa di Santa Liberata a Cerreto Guidi, dove invece ha lavorato su tela e con la tecnica dell’affresco, dipingendo con sistemi sempre meno consueti.
Si tratta di immagini che si legano strettamente all’iconografia sacra, con le posizioni solite del Cristo o di Maria, anche se spesso la loro collocazione è in luoghi particolari, con abiti e contesti che le attualizzano, le rendono vicine. Penso ad esempio al “Viaggio attraverso il Po”, con tre figure poste alla maniera di Maria e due santi, e con un uomo davanti a loro, messo in ginocchio, a braccia aperte e adoranti. Dietro di loro, in secondo piano, c’è una distesa d’acqua, un barchino e un grande uccello acquatico ad ali spiegate, che avvicina la raffigurazione di una scena di vita del padule, quello stesso, che si trova a poche centinaia di metri dalla chiesa di Santa Liberata e da Cerreto.
Ancora simili, quanto a drammaticità, ma anche a spiritualità, sono le rappresentazioni di tragedie più contemporanee, più vicine a noi. Quando i quadri di Viti hanno per protagonisti partigiani torturati e uccisi, quando la rappresentazione riguarda donne eroiche che si rivoltano contro i propri aguzzini con profonda dignità, noi leggiamo in queste figure la stessa corporeità della su pittura sacra, lo stesso taglio delle figure, un analogo uso del colore, come se – questo vorremmo dire – il discorso fosse uno soltanto: l’uomo che uccide l’altro uomo, l’uomo che tortura e crocifigge il figlio di Dio. Grande figuratività appunto, che si snoda con perizia su ogni tecnica, dalla terracotta alla ceramica, dall’affresco al mosaico, fino appunto alla pittura a olio, su tela o su pannello.
Un grande artista, al quale occorre offrire la nostra solidarietà critica, ma soprattutto una committenza pubblica, che lo leghi – anche stavolta – ai grandi del passato, che hanno vissuto, si sono fatti le ossa, lavorando per i conventi e per le chiese, oltre che – da un certo momento in poi – per la committenza privata. Ci sono nel repertorio di Viti, anche una serie di opere che possono del resto riguardare temi non così impegnati, come quelli su cui ci siamo finora soffermati, immagini della campagna dove vive, nella frazione delle Mura di Montaione, a pochi metri dall’incrocio di un paio di rii, uno dei quali è l’Egola, dove santa Verdiana compì un miracolo.
In questa campagna, nella pace quasi assoluta che vi si respira, Viti si lascia prendere dalla memoria, o magari vede intorno a sé, immagini di una storia appena di ieri, chissà se ancora di oggi. Ecco dunque l’uccisione del maiale, la semina, la terra dissodata, ma anche i volti e le figure dei vecchi contadini, le immagini delle loro case, i galletti che lottano, le nature morte e poi gli olivi che si intorcono in cima di quelle colline, i ritratti e gli autoritratti, realizzati tutti con la antica serietà che caratterizza queste popolazioni, pronte alla carestia e alla fame, che possono sorridere, ma poco di più. I tempi e le stagioni cattive sono lì in agguato, non si può star lì a divertirsi.
Chiudiamo, parlando ancora di Maria, una delle figure che Viti ha forse rappresentato di più, su di lei c’è una serenità, ma si avverte anche una sofferenza, sa quello che accadrà a suo figlio. Come tutte le donne rappresentate, conoscono la cattiveria dell’uomo: la vita è spesso questo, una calma che annuncia la tragedia. Unica speranza è forse la Resurrezione, ma quanta smania c’è in questi semplici volti.
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