Il messaggio di Papa Francesco per la 54esima Giornata Mondiale della Pace è stato presentato e consegnato stamattina, 11 febbraio, dall'Arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori al sindaco Dario Nardella, nel corso di una cerimonia in sala Lorenzo in Palazzo Vecchio.
Alla cerimonia, ristretta per le disposizioni anti Covid, hanno partecipato l'assessore al dialogo con le confessioni religiose Alessandro Martini, il presidente del consiglio comunale Luca Milani e i vicepresidenti Emanuele Cocollini e Maria Federica Giuliani, il presidente della commissione consiliare pace Donata Bianchi.
Porgo il mio saluto a Lei, signor Sindaco, e a tutti voi qui presenti, vivamente grato che, seppure nelle limitazioni che la presente pandemia ci impone, anche quest’anno la Chiesa fiorentina venga accolta a Palazzo Vecchio da chi rappresenta e governa la Città di Firenze per la consegna del Messaggio che Papa Francesco ci ha affidato in occasione della 54ª Giornata Mondiale della Pace.
La vostra accoglienza è segno della sensibilità con cui il Comune e la Città di Firenze vivono le tematiche legate alla convivenza umana e alla promozione della pace, avendo lo sguardo aperto non solo sul nostro territorio ma sugli scenari mondiali. La vostra accoglienza è altresì segno di come riconosciate nella Chiesa cattolica un interlocutore in grado di portare, con la sua dottrina e la sua esperienza, un contributo alla crescita di tutta la società civile.
Il Santo Padre, nel suo Messaggio, invita a fare nostra la «cultura della cura per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto, dello scontro, oggi spesso prevalente» (Messaggio, n. 1). Il tema della Giornata, “La cultura della cura come percorso di pace”, spiega il Papa, è stato scelto alla luce di quanto emerso nel corso della pandemia causata dal Covid-19, ma anche perché «accanto a numerose testimonianze di carità e solidarietà, prendono purtroppo nuovo slancio diverse forme di nazionalismo, razzismo, xenofobia e anche guerre e conflitti che seminano morte e distruzione» (Messaggio, n. 1).
Il Papa riprende anzitutto un passaggio dell’enciclica Laudato si’ in cui sottolinea come già dalle prime pagine del libro della Genesi emerge «che tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (Messaggio, n. 2; cit. di Laudato si’, n. 70). E il Papa ricorda anche come la cura dei deboli e la riduzione delle differenze sociali siano al centro del
precetto del sabato, dell’istituzione dell’anno giubilare, della predicazione dei profeti, che annunciano però come i poveri abbiano chi si cura di loro, Dio.
La cura di Dio per i deboli giunge in pienezza in Gesù, che nella sinagoga di Nazaret si presenta come colui che è «mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18). Ricorda il Papa che, «nella sua compassione, Cristo si avvicina ai malati nel corpo e nello spirito e li guarisce; perdona i peccatori e dona loro una vita nuova. Gesù è il Buon Pastore che si prende cura delle pecore (cfr Gv 10,11-18; Ez 34,1-31); è il Buon Samaritano che si china sull’uomo ferito, medica le sue piaghe e si prende cura di lui (cfr Lc 10,30-37). Al culmine della sua missione, Gesù suggella la sua cura per noi offrendosi sulla croce e liberandoci così dalla schiavitù del peccato e della morte» (Messaggio, n. 4). Una missione, quella di Gesù, che si prolunga in quella della Chiesa, nelle relazioni fraterne fra i suoi membri, nel considerare le risorse a nostra disposizione destinate al bene comune.
Questo è al cuore della dottrina sociale della Chiesa, offerta «a tutte le persone di buona volontà come un prezioso patrimonio di principi, criteri e indicazioni, da cui attingere la “grammatica” della cura: la promozione della dignità di ogni persona umana, la solidarietà con i poveri e gli indifesi, la sollecitudine per il bene comune, la salvaguardia del creato» (Messaggio, n. 6). Alla radice di questa visione sociale c’è il concetto di persona, perché «persona dice sempre relazione, non individualismo, afferma l’inclusione e non l’esclusione, la dignità unica e inviolabile e non lo sfruttamento (Messaggio, n. 6). Cura è dunque promozione della dignità e dei diritti della persona e al tempo stesso ricerca del bene comune: «i nostri piani e sforzi devono sempre tenere conto degli effetti sull’intera famiglia umana, ponderando le conseguenze per il momento presente e per le generazioni future» (Messaggio, n. 6) Questo, secondo il Papa ha avuto una riprova evidente proprio nella pandemia da Covid-19.
Continuando a illustrare la visione della società proposta dalla Chiesa, Papa Francesco mostra come la cura si attui mediante la solidarietà: «La solidarietà ci aiuta a vedere l’altro – sia come persona sia, in senso lato, come popolo o nazione – non come un dato statistico, o
un mezzo da sfruttare e poi scartare quando non più utile, ma come nostro prossimo, compagno di strada, chiamato a partecipare, alla pari di noi, al banchetto della vita a cui tutti sono ugualmente invitati da Dio» (Messaggio, n. 6).
Infine, l’orizzonte a cui occorre guardare non deve fermarsi alla sola umanità, ma all’intero creato: «Pace, giustizia e salvaguardia del creato sono tre questioni del tutto connesse, che non si potranno separare in modo da essere trattate singolarmente, a pena di ricadere nuovamente nel riduzionismo», scrive Papa Francesco (Messaggio, n. 6), riprendendo un’espressione di Laudato si’ (n. 92)
Il Papa propone questi criteri come una “bussola” per orientarci: «Mediante questa bussola, incoraggio tutti a diventare profeti e testimoni della cultura della cura, per colmare tante disuguaglianze sociali» (Messaggio, n. 7).
E così conclude il Papa: «La cultura della cura, quale impegno comune, solidale e partecipativo per proteggere e promuovere la dignità e il bene di tutti, quale disposizione ad interessarsi, a prestare attenzione, alla compassione, alla riconciliazione e alla guarigione, al rispetto mutuo e all’accoglienza reciproca, costituisce una via privilegiata per la costruzione della pace» (Messaggio, n. 9).
Il contesto di pandemia in cui ci troviamo dà particolare attualità a queste parole. Anzitutto perché mostra come solo nella condivisione e nella presa in carico dei più deboli possiamo intravedere una speranza di salvezza per tutti. Ma anche perché rende evidente come siano estesi i legami tra gli uomini e tra noi e il creato, così che nessuno può pensare di isolare una regione dall’altra sulla terra, ma neanche un problema dall’altro, le malattie dalla fame e dalla guerra. C’è da scegliere: o isolarci, difenderci, erigere barriere mai del tutto impenetrabili, o prendere su di noi i problemi degli altri, impegnarsi per la cura soprattutto dei più deboli, per tenere insieme l’edificio del mondo, per evitare che i punti fragili del tessuto delle società portino alla lacerazione che può travolgere tutti. La questione della pace è questione di tutti e comincia dal prendersi cura gli uni degli altri, perché nessuno resti indietro, sia escluso, ritenuto uno scarto.
Termino osservando come questo messaggio debba trovare un terreno particolarmente fertile tra noi, eredi di una storia in cui la cura degli altri, il farsi prossimi è stato uno dei caratteri più rilevanti di una identità da non disperdere. Prendersi cura dell’altro è stato un atteggiamento diffuso, generato nelle tante forme aggregative che dall’antica Confraternita della Misericordia in poi hanno animato in campo religioso e civile il tessuto sociale. Sottolineo questo radicamento nella società, chiedendo a chi vive la responsabilità delle istituzioni un’attenzione specifica per favorirne l’azione, nel rispetto di quel principio di sussidiarietà orizzontale per cui l’istituzione non deve sostituirsi alla vitalità dei corpi sociali intermedi o vincolarli in forme di subordinazione che ne limiterebbero l’agire. La diversità delle finalità va rispettata e dalla loro integrazione cresce la vita di una comunità nel suo insieme. La Chiesa cattolica fiorentina è consapevole della sua responsabilità in questo campo, sia come soggetto sociale che deve contribuire al bene di tutti, sia come promotrice al suo interno di forme di cura dei più deboli e fragili.
Affido la conclusione ancora alle parole del Papa: «Tutti insieme collaboriamo per avanzare verso un nuovo orizzonte di amore e di pace, di fraternità e di solidarietà, di sostegno vicendevole e di accoglienza reciproca. Non cediamo alla tentazione di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli, non abituiamoci a voltare lo sguardo, ma impegniamoci ogni giorno concretamente per “formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri” (Fratelli tutti, n.96)» (Messaggio, n. 9).
Giuseppe card. Betori
Arcivescovo di Firenze
Fonte: Diocesi di Firenze - Ufficio Stampa
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