Togliamo immediatamente terreno alle radici della retorica. Talvolta enormi conflitti sociali investono i regimi democratici e non si esauriscono in colorate e pacifiche manifestazioni: la storia politica del nostro paese è scandita anche da piazze violente che non per questo meritavano di non essere ascoltate. Chiunque però tenti di fare un'analisi delle proteste che a Firenze e in tutta Italia hanno trasformato le nostre città in un campo di battaglia resta un po' interdetto: manca un significante politico.
Nel volantino della manifestazione toscana si leggeva "non una manifestazione di categoria" ma la "protesta del popolo": eppure quando si evoca la categoria-calderone di "popolo" è sempre opportuno riflettere a quale parte di esso ci riferiamo. Negli ultimi giorni in tutta Italia i commercianti stanno protestando contro il lockdown parziale che li sta penalizzando, mentre altri chiedono un 'reddito universale' che faccia fronte alla grave emergenza economica ombra di quella sanitaria: questa è politica, questo è disagio sociale che al momento non è necessariamente violento, organizzato nell'alveo di categorie sociali o di associazionismi vari. Ma accanto a questa c'è un'altra piazza, un altro "popolo", che si esprime unicamente come violenza premeditata ed è questa piazza che ha messo a ferro e fuoco Firenze. Osservandola non si riesce a rispondere ad una domanda: per cosa protesta?
Da una parte c'è in corso un tentativo non troppo velato da parte del vetero-fascismo di alimentare i disordini e sulle macerie del disagio sociale costruire una qualche forma di consenso, uno scadente remake della strategia della tensione ai tempi del Covid, squallido teatrino delle marionette in camicia nera. L'estrema destra sta insomma tentando di prendere le redini dell'antipolitica, uno squadrismo populista che in una democrazia non può essere definito politica.
Ma c'è tanto altro: ci sono gruppi antagonisti e anarchici, antifascisti, centri sociali, gruppi ultras, piccola criminalità locale, attivisti di varia natura, c'è il grosso agglomerato di antipolitica nelle sue varie forme, c'è quello strano materiale sociologico che chiamiamo negazionismo e complottismi vari, infine tanti millennials capitati lì un po' per caso o per noia. Dare un'etichetta a tutto ciò è davvero un rebus sociologico. I criminali restano criminali senza bisogno di definizioni. Una parte di quella piazza è invece composta dal recupero di tutte quelle scorie di movimenti 'sinistroidi' nati dal basso dopo la dissoluzione dei partiti di massa, ma senza nessun impianto teorico, una inconsapevole depoliticizzazione di fenomeni che raccontavano già di una crisi di rappresentanza politica; ci sono poi i pezzi di quel "popolo scomparso" (come lo definì Asor Rosa), "spappolato" dalla fine delle grandi identità collettive, che trova nella politica, o in generale nell'autorità, un nemico comune per addossargli tutte le colpe del mancato benessere mentre ognuno si ritaglia spazi di individualismo competitivo; infine, c'è un materiale sociale amorfo, espressione di una generica e indefinita insoddisfazione che si mischia a protagonismo, i sintomi di una crisi culturale e socio-economica profonda, totalmente a-politica.
Basta ascoltare la piazza fiorentina per capire che parla una lingua 'creola' con accenti diversi: così nella stessa piazza si urla "comunisti di m****" e allo stesso tempo "fascisti di m*****", poi si invoca come un santo protettore "Libertà, Libertà", parola tanto generica quanto vuota di significato, i più politicizzati urlano "reddito universale" e "noi la crisi non la paghiamo", mentre accanto si alimentano ambigue narrazioni totalitarie: "siamo schiavi, ci vogliono solo in casa".
Le ragioni del malcontento generalizzato ci sono, ma quel che alla fine resta nelle piazze ricoperte di bottiglie e macerie è la sensazione che la violenza sia diventato un fine e non un mezzo. La violenza prende il posto della politica, si trasforma in un rito sociale, una forma di riscatto privato alimentato dal brivido della guerriglia, mero identitarismo giovanile. È la manifestazione di un disagio culturale oltre che socio-politico, nasce dalla frustrazione per non poter guardare con speranza al futuro e dall'impossibilità di trovare identità sociali e politiche che ne disegnino uno diverso. È qualcosa di più complesso, più ampio, più tortuoso che una protesta politica. Il risultato è che proprio l'offerta politica, ad esempio la legittima richiesta di un sostegno al reddito, si svaluta, e lo scendere in piazza assume le forme di un evento da sabato sera: si legge il volantino, si recluta amici per una serata 'diversa', la ricerca del brivido dell'illegalità, la scelta del vestito giusto, le pose provocatorie davanti ai celerini, effimera volontà di apparire sempre e comunque. Dopotutto le discoteche, i pub e gli stadi sono chiusi, bisogna pur fare qualcosa.
E così succede anche che rossi e neri condividono la piazza, con i primi impegnati nei loro autoreferenziali sogni rivoluzionari e gli altri che sghignazzano nell'ombra. Da una parte una destra neo-fascista che mischia la cultura squadrista con il disagio sociale; dall'altra la rivolta di un sottoproletariato arricchito, diseducato poliitcamente, slegato da qualsivoglia forma organizzativa, che anche quando fa richieste legittime coltiva la violenza come unico atto di riconoscimento sociale. Un sottoproletariato che insegue feticci di ideologia e confonde l'illegalità con la rivoluzione del popolo. Non vi sono nemmeno più piccole 'coscienze tradunioniste', cioè piccoli interessi particolaristici, né bozze di un progetto, è solo un insieme di 'microcasinismi' antiautoritari, qualcosa di pre-politico. È puro ribellismo, nient'altro.
Tutto questo è ovviamente il risultato di una pandemia che sta esasperando i conflitti sociali, che sta facendo venire al pettine le gravi disparità di questo paese che non si curano con un DL 'tappabuchi' qui e un po' di prudenza istituzionale là: il Covid sta scoperchiando il vaso di pandora di un intero sistema socio-economico. Tocca quindi al Governo e alla politica fare in modo che il disagio non trovi nel ribellismo l'accento con cui parlare.
Giovanni Mennillo
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