Il 18 maggio 1960, i madridisti sconfissero i tedeschi per 7-3 e si aggiudicarono la quinta Coppa dei Campioni consecutiva: per qualcuno potrebbe trattarsi di uno dei momenti fondativi dell'Unione Europea
Qualche giorno fa, la rete si è riempita di articoli sulla partita del 13 maggio 1990 fra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado, quella mai giocata e passata alla storia per i violenti scontri fra i tifosi croati e serbi e soprattutto per il colpo di kung-fu che Zvonimir Boban, il capitano della Dinamo, sferrò a Refik Ahmetović, un bosniaco musulmano delle forze di polizia che erano scese in campo nel tentativo di sedare gli animi. Il calcio di Boban non accese la miccia delle guerre che di lì a poco avrebbero dilaniato l'esperimento multi-nazionale e multi-religioso che il maresciallo Tito aveva creato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ma certo lo sport agì da catalizzatore e amplificatore delle tensioni politiche che covavano sotto la cenere nella federazione socialista jugoslava. La Repubblica Croata avrebbe ricordato gli scontri dello stadio Maksimir come uno dei momenti fondativi dell'identità nazionale, soprattutto negli anni della presidenza di Franjo Tudjman, l'ex generale dell'esercito federale ed ex presidente del Partizan Belgrado, che soleva dire che lo sport, dopo la guerra, è l'altro ambito in cui è più facile prendere coscienza dell'esistenza delle nazioni.
Non sono rari i casi di eventi sportivi, o di fatti riconducibili ex-post a prodezze sportive, che hanno contribuito alla formazione, alla conservazione o alla ri-costruzione delle identità nazionali. Dalla corsa di Fidippide dopo la battaglia di Maratona ai Mondiali di rugby del Sudafrica nel 1995, dalla lunga sciata che mise in salvo l'erede al trono norvegese nel XIII secolo all'inatteso trionfo della Germania Ovest nella Coppa Rimet del 1954, allo sport si è attinto a piene mani quando si è trattato di forgiare memorie collettive, simboli e metafore in grado di condensare i concetti di nazione, identità e cultura.
L'Europa, al contrario, non ha un mito fondativo. L'Unione Europea, che viene dal Trattato di Roma del 1957, non poggia le sue fondamenta su alcun evento simbolico in grado di rappresentare agli occhi dei cittadini degli Stati membri la sintesi dei valori e dei principi che stanno invece alla base delle costruzioni nazionali. Forse non a caso, l'Unione Europea è guardata con distacco, quando non con fastidio e insofferenza, e accusata di non esser capace di occuparsi delle materie che stanno realmente a cuore alle persone comuni. Anche di fronte all'attuale emergenza sanitaria, i singoli governi si sono mossi in ordine sparso e hanno occupato la scena mediatica senza coordinamento. Le istituzioni europee al contrario sono sembrate distanti ed esangui, più attente a far rispettare i soliti imperativi contabili che a rispondere alla sfida epocale che i paesi stanno ingaggiando contro il COVID-19, o non hanno saputo trasmettere con sufficiente capacità comunicativa le misure intraprese.
Già nel 1882, nel secolo della nascita del nazionalismo, il filosofo francese Ernest Renan aveva osservato che dati e fatti non bastano a fare una nazione. Una collettività nazionale può certamente coagularsi intorno a interessi comuni, ma per sopravvivere e prosperare ha bisogno di unire corpo e anima, di poggiarsi anche e soprattutto sul sentimento: un'unione doganale - concludeva icasticamente Renan - non è una madrepatria. Circa cento anni dopo, il politologo inglese Benedict Anderson teorizzò l'idea di "comunità immaginate", secondo la quale le persone possono concepirsi come appartenenti allo stesso gruppo umano solo se si affidano all'immaginazione. Sotto questo rispetto, le nazioni sono pertanto edifici più o meno artificiali, in cui confluiscono tradizioni inventate, passato costruito, memorie condivise, simboli aggregativi e immaginario comune. A stretto giro, Eric Hobsbawm rinforzò il concetto, affermando che un insieme di milioni di individui frutto dell'immaginazione sembra più reale sotto forma di ventidue persone in mutande che si disputano un pallone.
Sulla scorta di tali acquisizioni, e con la consapevolezza che l'Europa ha finora fallito nell'obiettivo (magari neanche perseguito) di fornire riferimenti alla dimensione affettiva della cittadinanza, il progetto FREE (Football Research in an Enlarged Europe) è partito anni fa alla ricerca di momenti unificanti nella storia calcistica continentale, incoraggiato da due fattori principali: 1) l'indiscutibile prevalenza del calcio nella cultura sportiva di moltissimi paesi europei; 2) la sua precoce "europeizzazione". Se sul primo c'è poco da spiegare, per il secondo vale la pena di sottolineare che mentre il progetto di integrazione europea prendeva forma sotto l'ombrello americano e coinvolgeva, anche in funzione anti-sovietica, i soli paesi occidentali (la CEE riunì Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi, che nel 1951 avevano già sottoscritto l'adesione alla CECA), la coeva nascita della UEFA (1954) e delle competizioni europee per club (la Coppa dei Campioni, a partire dal 1955-56) e per nazioni (la Coppa "Henry Delaunay", o Campionato europeo di calcio, dal 1960) si caratterizzarono per essere fin da subito allargate a tutto il territorio continentale.
Per la sua natura multiforme e per le forti passioni che genera, il calcio pare dunque essere un ambito particolarmente adatto a fornire autorevoli candidature al pantheon europeo della memoria condivisa. Lo dimostrano gli esiti del lavoro degli studiosi di FREE, condensati principalmente nel volume European Football and Collective Memory, a cura di Wolfram Pyta e Nils Havemann dell'Università di Stoccarda, che elenca numerosi "luoghi della memoria" con una genuina dimensione europea. Fra i primi eventi oggetto di una narrazione di respiro autenticamente europeo e di un riconoscimento realmente trans-nazionale figura la finale di Coppa dei Campioni del 1960, che il 18 maggio oppose Real Madrid ed Eintracht Francoforte all'Hampden Park di Glasgow, di fronte a oltre 127.000 spettatori entusiasti.

Rispettivamente con quattro e tre gol, Ferenc Puskás e Alfredo Di Stéfano furono gli artefici del successo del Real Madrid
Fin dai suoi esordi, la Coppa dei Campioni formò una stretta alleanza con il nascente sistema dei mass media, diventando un elemento essenziale della programmazione televisiva in Eurovisione, un formato che consentiva la simultanea trasmissione dei programmi a tutte le emittenti collegate. Per molto tempo le finali della competizioni furono le sole partite proposte in diretta su vasta scala e i tifosi, specialmente quelli più fanatici, che si sobbarcavano le prime avventurose trasferte all'estero, cominciarono a giudicare le proprie squadre mettendole a confronto con le migliori compagini europee. L'atto conclusivo dell'edizione 1959-60 fu il primo match trasmesso in diretta e per intero in ben dodici paesi d'Europa e nel Regno Unito è ancora oggi considerato l'avvenimento sportivo più profondamente radicato nella memoria collettiva fra quelli senza protagonisti britannici. Già prima della contesa, i giornali locali riportarono la sorpresa per l'eccezionale richiamo dell'evento, ben evidenziato dai 208 posti che furono riservati ai giornalisti nella tribuna stampa e letto con acuta lungimiranza come il segno dello straordinario e duraturo successo che la competizione avrebbe riscosso ancor di più in futuro. Gli altri aspetti a più riprese enfatizzati furono la peculiare attrazione esercitata sul pubblico degli appassionati in tutta Europa e lo stabilirsi di un elevato standard di gioco che poteva essere attinto solo in occasione delle contese fra le più forti formazioni continentali - è appena il caso di ricordare che nel lessico calcistico italiano il termine "euro-gol" intende ancora oggi indicare una segnatura di pregevole e rara fattura tecnica. Inoltre, dai resoconti traspariva in modo pressoché unanime la coloritura festosa, spettacolare e celebratoria della manifestazione, ma nel quadro di un'inerente tensione fra la gioia unificante procurata dalla bellezza del calcio e la poco velata ambizione di tutelare la propria identità specifica e nazionale, a conferma della natura ambivalente e contraddittoria delle dispute sportive internazionali.
Infine, quale ulteriore sanzione della speciale risonanza della partita, occorre dar conto di una notazione che viene dal "Corriere della sera" del 20 maggio 1960. Sull'austero quotidiano milanese si dava amplissimo risalto al clamoroso fallimento della Conferenza di Parigi. Convocato da tempo per favorire la distensione fra Est e Ovest, il summit fra Dwight Eisenhower, Nikita Chruščёv, Harold Macmillan e Charles de Gaulle si risolse in niente a seguito degli strascichi dell'incidente dell'aereo-spia U-2 e per le ricorrenti tensioni fra le due Germanie. In un abbozzo di inchiesta presso la popolazione tedesca, il "Corriere" riferì le parole di un abitante di Bonn, interpellato sulle conseguenze del fallito vertice di Parigi: «Secondo me - disse l'intervistato - più importante di Parigi è Glasgow, dove si sta giocando la finale per la Coppa d'Europa. Se la nostra squadra vincesse stasera su quella del Real Madrid, potremmo assistere all'ultima vittoria dei tedeschi. Poi, aspetteremmo il peggio».
Paolo Bruschi