Il 28 aprile di dodici anni fa, l'ex stella della nazionale sudafricana fu uccisa durante uno "stupro correttivo". I suoi aguzzini furono condannati da un vecchio calciatore diventato giudice
Dopo la violenza di Stato, il carcere e l’oppressione politica e sociale, poche cose la maggioranza nera odiava di più del rugby nel Sudafrica dell’apartheid. Quando gli Springboks giocavano, i neri prendevano posto negli spazi segregati a loro destinati e tifavano rumorosamente e ostinatamente per la squadra avversaria. Ancora più recisamente, negavano ogni legame con lo sport nazionale e impegnavano le loro energie psico-fisiche nel calcio negletto e bistrattato dalla minoranza afrikaaner. Così fece, negli anni ‘50 del secolo scorso, anche il piccolo Ratha Mokgoatlheng: inseguendo un pallone rotondo e non ovale nel ghetto di Alexandra, finì per diventare un campioncino paragonato addirittura all’inglese Jimmy Greaves. Grazie alle entrature di un conoscente, gli fu offerto un provino con il Manchester United del mitico George Best, che l’amorevole ma severo genitore gli impedì di onorare per instradarlo invece verso l’università: se i neri avevano una tenue speranza di migliorare la loro triste condizione dovevano per forza istruirsi. Mentre studiava, Mokgoatlheng continuò a giocare nella massima serie sudafricana, beninteso quella riservata agli atleti di colore, e ormai trentenne fu ricompensato con uno stage di sei settimane presso la Juventus di Giovanni Trapattoni.
In quegli stessi anni, una bambina della baraccopoli di KwaThema giocava a calcio con i suoi coetanei. Era Eudy Simelane, che sarebbe divenuta una stella con le Banyana Banyana, la nazionale femminile del Sudafrica, e un autentico orgoglio per le coetanee, ma non per tutti quelli che abitavano la stessa bidonville. Simelane fu infatti una delle prime donne sudafricane a dichiarare la propria omosessualità e a viverla apertamente in una società fortemente maschilista e omofoba. Per molti si trattava di un affronto che non poteva essere tollerato.
Il 28 aprile 2008, la 31enne Simelane fu avvicinata da un gruppo di teppistelli. Non potevano non sapere chi fosse, era la personalità più nota della zona. Non era più una calciatrice, aveva da poco ottenuto un lavoro presso uno studio legale a Pretoria, ma continuava a esprimere la sua passione per lo sport allenando varie squadre di ragazzi e si stava preparando per partecipare ai Mondiali del 2010 come guardalinee. Inoltre, si batteva notte e giorno per i diritti delle persone LGBT e prestava la sua opera volontaria per accudire i malati di AIDS. Probabilmente, riconobbe qualcuno dei suoi aggressori, prima di venire stuprata e brutalmente uccisa. L’indomani, ne ritrovarono il cadavere seminudo in un fosso dove la malavita locale gettava le vittime delle faide fra gang: forse 30 coltellate avevano martoriato il suo corpo, alcune avevano persino lacerato le piante dei piedi.
Quattro giovani finirono alla sbarra e le strade di due amanti del calcio si incrociarono: incaricato di dirimere il caso fu Ratha Mokgoatlheng, che dopo il campo, l’università e la fine dell’apartheid era divenuto giudice. Nello stesso periodo, furono denunciate addirittura 27.000 violenze sessuali e riportate le uccisioni di trenta lesbiche: durante la presidenza di Nelson Mandela, il parlamento aveva votato la legalità dei matrimoni fra persone dello stesso sesso e una politica di eguaglianza era sottolineata a chiare lettere nella costituzione della nazione che si era lasciata alla spalle la segregazione di Stato. Però, il Sudafrica era – ed è ancora – un paese fortemente omofobico, impregnato di una spregevole e radicata cultura maschilista, che produce reati abominevoli che la polizia stenta a perseguire.
Il processo per l’omicidio di Simelane durò sedici mesi. Le associazioni schierate per la tutela delle persone omosessuali cercarono di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla particolare natura degli odiosi “stupri correttivi”, con cui si intendono “punire” le vittime per il loro orientamento sessuale e rimetterle sulla “corretta” via. Un primo importante passo in avanti fu compiuto quando il giudice Mokgoatlheng emise una chiara sentenza di colpevolezza per tre degli imputati, condannati all’ergastolo o a pene superiori a trent’anni. Lo stesso magistrato, tuttavia, dimostrò che la strada da percorrere era ancora lunga: Mokgoatlheng riconobbe che gli assassini avevano compiuto un reato spregevole, ma non intese sottolineare il carattere persecutorio dell’omicidio. Anzi, svelò lui stesso di essere preda dei pregiudizi che ancora avvelenano una fetta consistente della società sudafricana: durante il lungo dibattimento, non si peritò di chiedere alle parti di evitare di ricorrere al termine “lesbica”, una parola che lo metteva a disagio.
Paolo Bruschi