Eccetto qualche fenomeno da baraccone politico, spero non serva riaffermare l'importanza del 25 aprile, né il valore del sacrificio di quella "generazione ribelle" (Avagliano) che lasciò tutto per inseguire un 'niente' che si chiamava Libertà. Oggi voglio però 'leggere' la Resistenza da un'altra prospettiva, riallacciando i suoi nodi con il presente, togliendola dalla teca in cui spesso viene posta.
La Resistenza non fu solo una guerra per la libertà, seppur quel postulato sia uno delle sue componenti primarie. Un'autorevole filone storiografico ha portato alla luce un aspetto che spesso viene nascosto dietro la 'grande ombra' della Liberazione dall'occupante nazifascista: da Nord a Sud la Resistenza fu una grande questione sociale. I combattenti volevano certo riacquistare diritti politici e liberare la loro terra, ma combattevano anche per i loro diritti sociali (Pavone), per ribaltare i rapporti di forza nella società e cambiare l'Italia in un momento in cui tutte le sue secolari strutture erano in macerie. Per dare autorevolezza a questa posizione cito un grande storico, P.Ginsborg:
«Il vecchio ordine su cui si fondava la società italiana era stato scosso fino alle fondamenta dalla sconfitta militare e dalla successiva invasione. I ceti più poveri della campagna […] chiedevano che fosse posto fine a secoli di sfruttamento e che si riformasse l’intero sistema di possesso della terra e dei patti agrari. Gli scioperi di massa della classe operaia settentrionale non avevano un’ispirazione puramente antifascista e democratica. Scaturivano dalle condizioni materiali degli operai, dal freddo, dalla fame, ma anche dalle case degradate, dallo sfruttamento alla catena di montaggio, dalla mancanza di potere sul luogo di lavoro. Per loro la lotta contro i nazisti e la battaglia per una nuova dignità in quanto esseri umani […] andava di pari passo. Le migliaia di italiani che si univano alla Resistenza non lo facevano solo per liberare il proprio paese, ma per trasformarlo. Erano pronti a sacrificarsi (dato che la probabilità di morte era estremamente elevata), ma solo per una nuova Italia, fondata sui principi di democrazia e giustizia sociale»
C'è quindi una 'Liberazione dimenticata', una 'Resistenza dimezzata', un riformismo soffocato dietro una «continuità come metodo» (Onida) con cui si decise di chiudere nel cassetto i progetti di democrazia alternativa nati durante l'occupazione nazi-fascista (Pavone). La Resistenza fu un calderone di passioni e speranze maieutiche di riscatto sociale, un «racconto intriso di sogno e di desiderio» (Portelli), in parte frustrato.
Nessuno può dimenticare che quel 25 aprile 1945 uscimmo dal fascismo, nessuno mette in dubbio l'enorme conquista raggiunta. Ma credo che oggi più che mai, in un momento di crisi delle democrazie occidentali, serva 'ridefinire la democrazia'. Serve marcare la differenza tra «democrazia formale», nella quale si realizzano unicamente i cosiddetti «universi procedurali», ossia si garantisce voto, elezioni periodiche, e procedure di governo, e una «democrazia sostanziale» che in definitiva compierebbe il presupposto democratico di un popolo di cives tutti uguali, garantendo cioè l’uguaglianza economica, materiale e di possibilità sociali. Non si tratta del pensiero di pericolosi bolscevichi, ma di quello di autorevoli politologi di formazione e idee differenti, antichi e moderni (che le democrazie debbano rispondere alla uguaglianza materiale lo affermano ad esempio politologi come Dahl o Habermas, giusto per fare due nomi privi di qualsivoglia connotazione politica). Nel mondo, invece, si ampliano le differenze sociali, lo Stato ha dismesso il suo ruolo di compensatore sociale, la società si divide sempre più in 'uomini e caporali'. Ed è in questa promessa mancata della democrazia, probabilmente, che si annidano i tarli di questo regime di potere, che li si chiami populismo, sovranismo o neofascismo.
C'è insomma una grande questione irrisolta di «democrazia incompiuta» che l'emergenza Covid-19 farà esplodere in tutte le sue contraddizioni. Che la legittimazione delle società democratiche passi anche da qui mi pare un fatto insindacabile, ma la sensazione è che i mutamenti politici e culturali che hanno succeduto lo 'Stato sociale' del dopoguerra, abbiano solo permesso alla politica di non fare più promesse, come se l’offerta delle democrazie si fosse enormemente svalutata, accontentandosi di orpelli formali e marketing politico-elettorale. Eppure risolvere quel contenzioso potrebbe essere un punto di partenza per uscire dalla crisi di legittimità di questa complessa tecnologia di potere.
Slegare le rivendicazioni sociali della Resistenza da quelle politiche, nascondere dietro la Liberazione le speranze sociali di sfruttati che si sono improvvisati eroi, significa fare un torto alla Resistenza, si abbia il coraggio di dirlo chiaramente. E oggi, finita la guerra fredda e le ideologie, dopo un settantennio di pace e diritti politici, con una emergenza economica alle porte, credo che rileggere la Resistenza in questo modo sia un atto dovuto.
Allora scegliemmo di trasformare una speranza per cui qualcuno ritenne necessario mettere a rischio la propria vita in un grande bluff. Mi gelò in sangue, e tutt'ora ho i brividi, quando lessi un diario di un partigiano che commentò così i suoi sogni infranti: «e allora perché era successa una guerra, a che scopo tante vittime, se si ritorna da capo?».
Io credo che oggi più che mai onorare la resistenza significa pensare a passi in avanti, senza tornare da capo.
Giovanni Mennillo
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