Contrastare l'invasione dello scarabeo giapponese Popillia japonica, che al momento minaccia l'intero settore agricolo, i paesaggi urbani e la biodiversità di alcune aree dell’Italia settentrionale (in particolare al confine tra Piemonte e Lombardia, in prossimità della Valle del Ticino) e della Svizzera meridionale, ma che potrebbe facilmente estendersi a tutta l’Europa. E’ questo l’obiettivo del progetto “Integrated Pest Management (IPM) Popillia” per il quale l’Università di Siena, con il laboratorio Evolutionary and Systematic Zoology diretto dal professor Antonio Carapelli, ha ricevuto un finanziamento di 405 mila euro nell’ambito del programma europeo Horizon 2020 per la ricerca e l’innovazione.
Il progetto coinvolge 13 istituzioni appartenenti a sei nazioni europee, ognuna delle quali affronterà una o più linee di ricerca, per un finanziamento complessivo di cinque milioni e mezzo di euro.
“L'obiettivo principale del progetto IPM Popillia - spiega il professor Carapelli del Dipartimento di Scienze della vita - è quello di salvaguardare la salute delle piante di interesse commerciale, e non solo, minacciate dall'invasione di questo coleottero fitopatogeno introdotto per caso in Italia nel 2014 e che può diffondersi attraverso gli scambi commerciali e la circolazione delle persone. Si tratta di una specie che infesta e distrugge tappeti erbosi, piante selvatiche, da frutto e ornamentali e la cui diffusione si sta ampliando in tutto il mondo”.
Con il progetto IPM Popillia saranno sviluppate azioni per conoscere il ciclo vitale, le modalità di dispersione e le strategie di controllo dell’insetto.
L’Università di Siena si occuperà del sequenziamento del genoma di Popillia, della ricostruzione della storia evolutiva della specie e in particolare delle rotte percorse dall’insetto dal suo areale di origine in Giappone, attraverso gli Stati Uniti, fino all’Italia e alla Svizzera. “La conoscenza del genoma dell’insetto – conclude il professor Carapelli - permetterà di studiare a livello molecolare i meccanismi messi in atto per adattarsi a nuove situazioni ambientali e per resistere ai trattamenti impiegati. La ricostruzione delle rotte di colonizzazione consentirà di individuare la scala geografica ottimale per realizzare interventi di controllo e limitare al minimo la possibilità di ulteriori invasioni”.
Fonte: Università di Siena
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