Avevo tre anni e mezzo. Era un’estate calda, come questa, quel luglio del 1944 con i tedeschi che cercavano di raggiungere la linea gotica e gli americani che avevano avuto l’ordine da “Ike” di fermarsi per riordinare le truppe stremate dagli agguati di Kesserling sulle colline di Legoli, Volterra e Palaia. Lasciamo da parte gli eroi o presunti tali. Voglio narrare episodi della vita quotidiana così come me li hanno raccontati, genitori, nonni e loro amici.
Storie vere o verosimili. Non seguirò nessun ordine, li dirò come mi affiorano alla mente, come devono avermeli raccontati. Il mio babbo narrava di un pontaegolese, grosso come un armadio, che a un americano nero e ubriaco che chiedeva “fiche-fiche” gli mollò un ceffone aggiungendo: “se un tu smetti te ne do un antro che ti fo fa’ tre giri e mezzo”. Il povero nero non smise, e lo trovarono in un fosso di concia, vivo, ma più nero di come c’era entrato.
E la grande paura degli stibbiesi dopo che “un disgraziato” - la gente diceva così -, aveva sparato, uccidendoli, a due soldati tedeschi alla ruga di Stibbio. Fu una paura che entrò nelle ossa di tutti e allora, chi andava a nascondersi in Vaghera o nei rifugi nei “vallini”, chi prendendo i sentieri verso Egola.
Il pane bianco fu una gioia per tutti. Bianco, soffice, dopo tanto pane di segale scuro e duro. Mio nonno Paolo faceva il fornaio e il pane non è mai mancato e lo dava anche a credito. Nonna Egle si disperava. “Fatta la grazia gabbato lo santo – ripeteva in continuazione.” Ma lui era socialista e i suoi compagni, diceva, lo avrebbero pagato alla fine. Alla fine avvenne che gli toccò a pagare per “i profitti di guerra” e i debiti non furono mai saldati e i “te lo dicevo” della nonna risuonarono per anni nelle mura domestiche a anche fuori.
Un giorno, avrò avuto quattro anni, l’esplosione del lume a carburo fece fuggire tutti fuori dalla cucina. Una fiammata, una botta, un’odore acre di aglio. Ricordo la fuga nell’orto, come altre fughe, a ruzzoloni nelle fosse, con mamma che mi teneva il capo, quando arrivava la “cicogna” perché dopo sarebbero giunte le cannonate e gli aerei. Certe storie non so se le ho vissute o se me le hanno raccontate tante volte che mi pare di averle vissute; ma il carro armato che apparve dopo una curva sulla salita di Stibbio l’ho ancora davanti agli occhi. Una massa grigio scura assordante. Ma era tedesco o americano?
La cosa più buffa, raccontata ovviamente, fu quando babbo, nella cucina al primo piano della casa al Piave a Ponte a Egola, aspettava che bollisse il caffè incurante dell’allarme aereo. E il caffè non voleva uscire e le sirene urlavano e mio padre che brontolava perché non trovava lo zucchero. Sì, perché caffè e zucchero grazie ad un po’di cuoio di contrabbando, lui riusciva sempre a trovarlo. Babbo Dino era così: incurante del pericolo come quando molti anni prima alla stazione di San Romano, salvò una donna caduta sui binari mentre arrivava il treno. Serbo ancora la medaglia di bronzo al valor civile che gli appuntò Mussolini, ma è un’altra storia; torniamo a quell’estate di guerra.
Certe sere un tedesco, mi prendeva sulle ginocchia. Mi faceva giocare, gli ricordavo i suoi figli in Germania. Infine fu una paura, una grande paura. Mio babbo, partigiano della Brigata Pannocchia, aveva una pistola rimpiattata in soffitta. Un giorno arrivò una pattuglia di tedeschi. Erano arrabiatissimi perché un “bandito” alla Catena aveva ucciso un maresciallo e loro avrebbero incendiato le case se non usciva il colpevole. La mamma fu presa da un attacco isterico perché un soldato: “occhialuto, piccolo e cattivo”, aveva messo la pistola alla gola del babbo. Ed io, strillavo e strillavo. “Li feci scappare – dicevano”. Ma io non ci ho mai creduto.
Valerio Vallini
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