L'arcivescovo di Firenze cita Leopardi e Luzi per le omelie di Pasqua

Omelia della Veglia pasquale

La ricchezza dei simboli che si intrecciano nella celebrazione di questa Veglia rischia di confonderci. Fuoco, cera, luce, acqua, olio, pane e vino sollecitano i nostri sensi, dalla vista fino al gusto, facendoci immergere nella ricchezza del mondo naturale a cui appartengono, alcuni offerti all’uomo in gratuità, altri dall’uomo stesso elaborati per diventare elementi di vita.

Questo legame tra rito e natura va collocato all’interno del rapporto che la fede cristiana intrattiene con il mondo e con la dimensione materiale dell’esistenza. Lontano dal proporsi come una spiritualità che ci separa dal mondo o, addirittura, da esso ci allontana ritenendo la materia espressione del male, la fede cristiana invita invece a riconoscere nel mondo un riflesso del Dio creatore, un bene offerto all’uomo perché in esso realizzi la propria vocazione di immagine e somiglianza di Dio, il luogo in cui il Figlio di Dio è venuto ad abitare, facendo della carne da lui assunta lo strumento della nostra redenzione.

“Caro salutis est cardo”, “la carne è il cardine della salvezza” scriveva Tertulliano nel III secolo (De carnis resurrectione, 8, 3: PL 2, 806). E se siamo soliti portare questo mistero alla nostra riflessione nel contesto del Natale del Signore, non è meno opportuno farlo in questa notte di Pasqua, in cui il Signore risorge nella sua carne, trasfigurata dal dono di sé sulla Croce. Noi, come cristiani, abbiamo a cuore il mondo, perché ce ne sentiamo parte; perché sappiamo che Dio lo ha creato e ha voluto abitarlo, diventarne parte; perché sappiamo che in esso siamo stati posti per trasfigurarlo secondo il disegno di amore che il Padre ha voluto dall’eternità. La materia, il corpo nostro e quello dei nostri fratelli e sorelle, il mondo animale e vegetale, le cose attorno a noi, tutto sentiamo partecipe della nostra fedeltà a Dio, lo riconosciamo come l’ambiente, lo strumento, le relazioni in cui si realizza la pienezza della nostra esistenza, la nostra risurrezione. Per questo motivo le vicende del mondo attraversano la nostra vita e ci sentiamo responsabili della custodia della creazione, della vita di tutti e di ciascuno, soprattutto dei più deboli, della costruzione di una comunità umana fraterna e accogliente, che nessuno respinge, tutti sostiene, con tutti apre spazi di dialogo nell’incontro di identità che non si annullano nell’omologazione ma si riconoscono nella reciprocità.

Questo mistero, l’armonia del creato, «linguaggio dell’amore di Dio… carezza di Dio», come si esprime Papa Francesco (Laudato si’, 84), si illumina alla luce della parola di Dio, che ha nutrito in abbondanza questa notte di Veglia. Non a caso la serie delle letture bibliche si è aperta con la pagina che la Genesi dedica alla creazione del mondo e dell’uomo, per ricordarci che tutto nasce dal cuore di Dio, che egli ha impresso in noi la sua stessa immagine, che «l’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra» (FRANCESCO, Laudato si’, 66).

Il progetto di Dio sull’umanità e sul mondo diventa poi una storia concreta di uomini e donne, di un popolo, perché Dio si lega attraverso vincoli concreti, un patto che si intreccia con le vicende della vita di Abramo e dei suoi discendenti: attraversa il mistero della morte, quella che incombe sul figlio, Isacco, salvato dall’obbedienza del padre e dalla misericordia di Dio; si prolunga nel passaggio da schiavitù a libertà, che dà identità a degli schiavi e li costituisce come popolo; non viene meno nella miseria delle infedeltà umane, perché queste non vanificano la fedeltà di Dio; lascia intravedere un tempo futuro, in cui un nuovo patto tra Dio e gli uomini si fonderà non sull’obbedienza a una legge ma sull’amore che sgorga da un cuore indurito fatto ora cuore di carne, un cuore nuovo.

Questa storia, che è la nostra storia, che è anche figura della storia personale di ciascuno di noi, sfocia infine nell’evento che la indirizza definitivamente verso la sua pienezza e il suo compimento: la morte e la risurrezione di Cristo, l’evento che, come ha spiegato l’apostolo Paolo, permette anche a ciascuno di noi di entrare in questa dinamica di morte e risurrezione, per cui possiamo liberarci dalla schiavitù del peccato per essere intimamente uniti all’esistenza del Figlio di Dio, per «camminare in una vita nuova» (Rm 6,4).

Che tutto questo abbia una sua perenne attualità, che il Risorto sia presenza viva nell’oggi della storia e interroghi chiunque sente che la vita porta in sé una domanda irriducibile, la ricerca del suo perché, di un suo orizzonte alto e profondo, lo testimonia chi, come in questa notte in questa cattedrale, chiede alla Chiesa di essere introdotto nel mistero di Cristo, mediante il lavacro battesimale. Questo, ci dice ancora san Paolo, è morire con Cristo, morire a un’identità incompiuta, abbozzata magari, ma non piena, e rinascere, vivere con lui – «viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,) –, trovare cioè in Gesù un’esistenza vera, capace di colmare le attese del nostro cuore, capace di irradiare attorno a sé una sovrabbondanza d’amore quale mai avremmo immaginato.
Lo vedremo tra poco accadere tra noi per il mistero del Battesimo, acqua che purifica, acque da cui si nasce a vita nuova, olio che fortifica, crisma che consacra a dignità divina, luce che risplende nella notte confusa del mondo e traccia una strada di sicuro affidamento e di fraterna condivisione. Condivisione che si fa piena nell’Eucaristia che, celebrata come memoriale, è presenza reale di un sacrificio che non ha visto trionfare il potere della morte, ma è stato espressione suprema di un amore che vince la morte e ogni sua manifestazione; Eucaristia che, accolta come cibo, ci assimila a Colui che ci si dona e ci unisce nella comunione della mensa fraterna, generatrice a sua volta di testimonianza di carità.

Fin qui il cammino della nuova creatura cristiana, che accogliamo tra noi con affetto e con promessa di fraterno accompagnamento; il cammino che in questa notte la Chiesa invita ogni fedele a riappropriarsi e a rinvigorire.

Il poeta Mario Luzi così ha scritto contemplando il Cristo Risorto di Piero della Francesca a Sansepolcro:
«Vinta la notte, schiantato ogni legame
di morte e d’increscioso asservimento,
emerse, mi colpì in pieno petto
l’abbagliante aurora umana».
(“Baedeker”, in Dottrina dell’estremo principiante, 2004).

Davvero nel volto del Risorto risplende l’aurora di una umanità nuova, svincolata dal male, dalla morte, aperta alla vita, all’amore.
Ma un’ultima parola la dobbiamo al fondamento del mistero che celebriamo, quell’evento che la pagina evangelica ci ha annunciato con tanta semplicità nel suo carattere inaudito.

Anzitutto, inaudito è che l’annuncio dell’evento più sconvolgente della storia umana – la vittoria sulla morte, sul nemico ultimo di tutti noi – sia affidato a un gruppetto di donne, gente di nessun conto nella società del tempo, donne di cui peraltro viene detto il nome, si avesse voglia di controllare la fonte di quanto viene narrato da Luca. Donne inoltre all’inizio piene di interrogativi e poi impaurite, come non può che accadere per chi è testimone di un evento trascendente, un’apparizione di uomini in vesti luminose. Le parole che odono, seppure formulate come un interrogativo, suonano come un imperativo: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Lc 24,5b).

Parole difficili da comprendere per chi, come loro, aveva visto Gesù morire appeso a una croce e poteva testimoniare che il suo corpo era stato chiuso in quel sepolcro, ma ora doveva prendere atto che quel sepolcro era aperto e quel corpo non c’era più. Ma i due uomini non lasciano spazio ad altre possibili illazioni: «Non è qui, è risorto» (Lc 24,6a). E la dimostrazione va cercata nella fede con cui si è seguito quell’uomo dall’inizio della sua predicazione fino a questo sepolcro ora vuoto: «Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: “Bisogna che il Figlio dell'uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno”» (Lc 24,6b-7).

Per chi ha seguito Gesù e lo ha ascoltato – quindi anche per noi – non dovrebbe essere difficile credere a questo. È quanto accade alle donne. Ricordano e da subito diventano annunciatrici dell’evento. Lo fanno verso gli apostoli, che, ancora una volta, si mostrano in ritardo: non credono e trattano le donne come gente che farnetica. Accade ancor oggi per il messaggio del Vangelo, che la mente dell’uomo chiuso alla fede continua a ritenere un vaneggiamento. A meno che non si faccia come Pietro, e ci si scomodi per controllare i segni. Non sarà ancora una fede perfetta, ma è già la sua premessa: lo stupore.
Il Signore semini in noi questo stupore aiutandoci a riconoscere i segni del suo passaggio tra noi, i segni della sua vita che vince la morte e che si manifestano non solo in un sepolcro vuoto, ma in ogni parola di verità, in ogni immagine di bellezza, in ogni gesto d’amore. Fidarci di questi segni sia la nostra buona Pasqua.


Omelia della Domenica di Pasqua – Risurrezione del Signore

Lasciate che oggi introduca una più profonda comprensione della Pasqua del Signore con le parole di una poesia. Se lo merita, perché quest’anno compie duecento anni. Ci è utile, perché, dopo la parola di Dio, sono i poeti che riescono a dire al meglio gli interrogativi e la ricerca del senso della vita, come l’allora ventenne Giacomo Leopardi.

Ascoltiamo:
L’Infinito
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
Non mi avventuro di certo nell’interpretazione del testo. Non è nelle mie competenze e poi sto qui a fare un’omelia. A me basta ascoltare il poeta per suscitare qualche interrogativo nel nostro intimo, a partire da una constatazione, se si vuole banale, ma che colpisce ogni lettore senza pregiudizi ideologici. Ciò che è in gioco in questi versi è la tensione che si crea tra il nostro limite, che quella siepe misura, e l’attesa, perfino l’impaurirsi, il timore di ciò che è oltre, di ciò che non ha misura, l’infinito, precisamente. Perché è nel far vivere questa tensione, senza perdere i poli da cui essa si crea, che sta il senso di una vita piena, di un mare in cui, secondo la poesia, è dolce naufragare.

Dentro ciò che è circoscritto e misurato ci sono i nostri giorni – le stagioni del poeta –, giorni pieni di fatti, di cose, di persone, di relazioni, esperienze che, se vissute a prescindere dall’altro polo, quello dell’infinito, si finisce per considerarle solo in termini di possibilità, di efficienza, di utilità, di profitto. Si spiegano così la poca considerazione per la vita nella sua fragilità, in specie al suo inizio e al suo termine naturale; la preoccupazione per la salvaguardia di sé, persona, gruppo di interesse, perfino etnia e nazionalità, quasi che la dignità che è di ogni persona umana non basti a giustificare il prendersene cura, in ogni caso, senza distinzioni; la disattenzione con cui ci poniamo nei riguardi dell’ambiente, quasi che esso possa esistere a prescindere da noi, senza una responsabilità verso il futuro e, nel presente, verso i più deboli; l’egoismo che ci domina quando mettiamo a tacere le voci dei tanti che soffrono per le guerre, per condizioni di vita inumane, per privazione di diritti e di libertà; la solitudine che amareggia l’età avanzata e la malattia di uomini e donne che hanno dato tanto nella loro vita e non hanno più nessuno a cui appoggiarsi; aggiungerei anche la sempre più netta linea di demarcazione che poniamo tra i nostri interessi e quelli della comunità, il venir meno dell’impegno per il bene comune. Potemmo continuare, ma ritengo che questi esempi siano sufficienti a descrivere il mondo che limita lo sguardo al di qua della siepe, quando vien meno la forza di pensare oltre, verso l’ultimo orizzonte, gli interminati spazi, i sovrumani silenzi e la profondissima quiete.

Di questo sguardo che vada oltre abbiamo bisogno per non affogare nel quotidiano e per dare slancio e profondità alla nostra vita. E non ci mancano sollecitazioni a questo, perché al di qua della siepe non mancano i segni dell’infinito e dell’eterno, come lo stesso poeta segnala, cogliendo nel vento che stormisce tra le piante dell’ermo colle qualcosa che permette di legare tra loro la voce di quaggiù e il silenzio infinito. L’amico poeta Davide Rondoni ci invita a cogliere in quest’immagine un riflesso di una nota pagina biblica: il manifestarsi di Dio al profeta Elia sull’Oreb nel «sibilus aurae tenuis» – come leggeva Leopardi nella Bibbia, testo per lui di ripetuti e attenti studi nella sua biblioteca –, «il sussurro di una brezza leggera», leggiamo oggi, o, meglio, ancor più alla lettera: «una voce di esile silenzio» (1Re 19,12). L’oltre, il divino c’è, ed è ciò che solo può dare senso alla vita, proiettandola oltre se stessa.

Che quanto si attende possa divenire realtà è l’annuncio della Pasqua. Sì, finalmente sono giunto a parlare della Pasqua, ma il lungo cammino, che ho voluto fare con una poesia di duecento anni fa, era per dirvi che quando proclamiamo che Cristo è risorto non diciamo qualcosa che ci porta fuori dalla vita, ma stiamo annunciando qualcosa che ci deve premere assolutamente, perché in quell’evento accaduto duemila anni fa si è composta per sempre la tensione del cuore dell’uomo tra il limite e l’infinito, il tempo e l’eterno, la carne e lo spirito, l’uomo e Dio, la tensione di cui quella poesia è testimone e denuncia. Perché Pasqua è proprio questo: non solo il chinarsi di Dio sulle miserie dell’uomo – questo lo contempliamo già a Natale! –, ma l’assumere la carne dell’uomo, quella ferita, martoriata, crocifissa, e portarla nel cuore eterno di Dio. Quel che in Giacomo Leopardi, e nel cuore dell’uomo, è una tensione, diventa realtà compiuta nel corpo risorto di Cristo e, per chi si unisce a lui, diventa promessa di un compimento che si manifesterà alla sua venuta, ma che intanto già fiorisce nei segni di amore di cui siamo resi capaci. È quanto l’apostolo Paolo ci ha rammentato nel testo della lettera ai cristiani di Colossi.

Per nutrire questo legame dobbiamo saper cogliere i segni che il Signore ci offre nel cammino della vita, esili impronte di lui, l’Infinito: i gesti di amore che pur non mancano attorno a noi, i sentimenti di speranza che animano la vita di tanti e aiutano ad andare avanti pur tra sofferenze e difficoltà, la fede salda della nostra gente che non si lascia travolgere dal pensiero unico che tende tutto a materializzare. Questa gente, magari di una fede semplice e che fatica a dirsi, non si lascia turbare da venti forti, fuochi divoranti e terremoti devastanti, per usare le immagini della storia di Elia, cioè le tante manifestazioni di forza con cui i poteri di questo mondo vorrebbero farci credere che, in cambio di una presunta illusoria felicità, possiamo cedere loro la chiave del nostro cuore. Non è così Dio, perché egli si fa spazio nella nostra vita in quella tensione tra limite e infinito che ogni giorno ci interroga, e, attraverso la fragilità dei segni, si mostra e si propone, discretamente, nel pieno rispetto di una coscienza libera.

Di segni da cogliere è intessuto anche il cammino della fede nel Risorto. Lo vediamo nella pagina evangelica che è stata proclamata e che riferisce del primo incontro dei discepoli con il mistero della risurrezione del Signore: Maria di Magdala ne esce sconvolta e senza comprendere; Pietro non si sottrae a quanto la donna annuncia, ma giunto al sepolcro vede senza però riconoscere; solo il cuore dell’altro discepolo, colmo dell’amore di Gesù, dal segno dei teli di lino, posti là dove avevano fasciato il corpo di Gesù ma ora senza più quel corpo, e dal segno del sudario, misteriosamente avvolto a parte, giunge alla fede nella risurrezione di Cristo, una fede che la Scrittura confermerà e illuminerà.

Abbiamo bisogno di un cuore colmo d’amore per vedere le tracce del Risorto attorno a noi. Non lasciamoci confondere dai rumori di questo mondo, dalla voci allettanti che vorrebbero soffocare l’attesa del cuore, e prestiamo attenzione al vento leggero, alla voce di esile silenzio con cui Dio si manifesta e ci si rivela come l’infinito che finora ci ha interrogato:
«La risurrezione come un movimento
già iniziato nelle cose»
(Davide RONDONI, “Verso Sansepolcro”, in Avrebbe amato chiunque, Guanda 2003).

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