Incendio di Notre Dame citato dall'arcivescovo Betori nella messa del Giovedì Santo

(foto dalla pagina Facebook ufficiale del sindaco Dario Nardella)

Abbiamo ancora negli occhi le fiamme che hanno divorato la guglia e il tetto di Notre Dame, angosciati per la rovina che ha subito la cattedrale di Parigi, ma alla fine rincuorati che la sua struttura abbia resistito e lasci sperare un pieno recupero, in termini pasquali una risurrezione – così auspichiamo – di una così importante espressione della storia del cattolicesimo, dell’arte e della Francia. Ci sentiamo vicini alla comunità cattolica e alla gente tutta della capitale francese, accompagnando la loro prova con l’offerta di ogni utile aiuto, come hanno fatto le autorità della nostra città e quelle dell’Opera della nostra cattedrale e di altre basiliche e istituzioni culturali fiorentine; altrettanto vicini vogliamo essere con la preghiera, perché il Signore dia forza in questo momento di prova e coraggio nell’impegnativo lavoro di ricostruzione.

Accanto alla vastità e alla profondità della devastazione, ha colpito in questi giorni il sentimento di partecipazione che ha coinvolto tante e così diverse persone. In Notre Dame si è infatti riconosciuto senza esitazioni un simbolo rappresentativo identitario della fede e del sacro; per molti un simbolo d’identità della Chiesa cattolica, cioè della comunità ecclesiale che gli ha dato vita e alla quale si offriva e si offrirà quale spazio del suo convenire, del suo raccogliersi come assemblea del popolo di Dio; per altri, e non pochi, in quella chiesa si è riconosciuta l’identità della città di Parigi, della nazione francese, dell’Europa, della sua storia e della sua civiltà.

Un convergere di sentimenti che mostrano come attorno a un simbolo, attorno ai simboli si crei unità e si riscoprano identità, magari offuscate da una cultura che tende tutto a omologare come quella che oggi domina il mondo globalizzato. Abbiamo scoperto in questi giorni che dei simboli abbiamo bisogno, per riconoscere e dire chi siamo, e non per segnare confini, per produrre lacerazioni, per creare opposizioni, antagonismi, ostilità; al contrario, abbiamo bisogno di simboli che ci identifichino per offrirci agli altri nella nostra più profonda verità, come esigenza di autenticità dell’incontro e del dialogo.
Qualcuno mi chiederà a questo punto cosa c’entrino questi pensieri con un’omelia nella Messa del Giovedì Santo. È che proprio questi pensieri ci sollecitano a riflettere come qui, in questa celebrazione della Messa “nella cena del Signore”, come pure in ogni Celebrazione eucaristica, a noi è offerto un dono ben più alto di un qualsiasi simbolo, che ha in sé una forza ben superiore di un simbolo per richiamarci alla nostra identità e per edificarci in comunione e unità. Il pane e il vino in cui riconosciamo nella fede il corpo e il sangue di Cristo sono infatti ben più che un simbolo del Signore tra noi: l’Eucaristia è un segno che è presenza reale di Cristo vivente, memoriale di una Pasqua che si rinnova ogni volta che si celebra. L’Eucaristia non è un simbolo, ma un sacramento, una presenza di grazia che plasma di sé chi l’accoglie liberandolo dalla schiavitù del male.

Proprio il confronto con la cena pasquale del popolo d’Israele, descritta nella sua ritualità dalla pagina del libro dell’Esodo che abbiamo proclamato come prima lettura, evidenzia questa specificità e unicità del mistero dell’Eucaristia. Anche la cena pasquale ebraica si fondava su un sacrificio, quello di un agnello; anche quell’agnello indicava un’azione di liberazione, che accaduta nella notte dell’Egitto continuava a mantenere il popolo nella libertà; anche in quella cena si costituiva un’assemblea, seppure a dimensioni familiari, a cui era chiesto di condividere un cibo. Ma chi salva in quel rito non è l’agnello, bensì Dio che risparmia da morte i primogeniti d’Israele; il sangue è segno di liberazione, ma non ne è la sorgente e la causa, perché la fonte della salvezza è Dio che vuole libero il suo popolo; l’assemblea familiare si nutre di un cibo condiviso, ma non viene assimilata all’esistenza di un animale morto.

In sintesi, la cena pasquale ebraica resta all’interno della logica del simbolo, cioè di un segno che rinvia a una realtà che è altra, mentre la cena eucaristica che Cristo consegna come memoriale ai suoi discepoli, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda lettura, si innalza alla dimensione di un segno che si fa realtà viva, diventa presenza viva sacramentale. Nell’Eucaristia il segno è la realtà, il pane è il corpo di Cristo e il vino è il suo sangue. Gesù è l’Agnello che toglie il peccato del mondo; il suo sangue sparso per noi è ciò che ci redime liberandoci dal male; la condivisione della sua carne e del suo sangue ci unisce a lui e ci assimila alla vita stessa di Dio: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. […] Colui che mangia me vivrà per me» (Gv 6,56-57).

Il Corpo donato e il Sangue versato di Cristo, che egli afferma presenti ogni volta nel pane spezzato e nel vino condiviso in sua memoria, sono ciò che libera il mondo dal peccato, perché proprio nel corpo e nel sangue di Cristo, nella sua umanità, nella carne che egli ha assunto nascendo dalla Vergine, si compie il mistero d’amore di un Dio che si dona, si consegna all’uomo per ricondurlo a sé. Solo la carne poteva essere crocifissa.

Di questo è ben convinto l’apostolo Paolo, che colloca la celebrazione eucaristica in un orizzonte che unisce il dono di sé che Cristo ha consumato sulla Croce con la rivelazione della potenza rigeneratrice che questo dono ha per la storia umana e che si manifesterà al suo compimento: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1Cor 11,26).

Ma se già un simbolo ha la forza di risvegliare un’identità e di alimentare l’unità tra chi vi si riconosce – come ci ha mostrato in questi giorni Notre Dame –, c’è da chiedersi come tutto questo debba valere ancor più per una presenza reale nel segno sacramentale quale è il mistero eucaristico. E se nel sacrificio della Croce si manifesta il volto del Figlio nell’obbedienza al Padre e si consuma il suo essere dono per i fratelli, la celebrazione dell’Eucaristia si compie nel momento in cui a partire da essa anche chi vi partecipa riscopre e fa crescere la propria identità di figlio del Padre celeste, e quindi di fratello nella comunione della famiglia dei figli di Dio, che si costruisce attraverso i legami che nascono dal dono di sé.

Ma il dono che ci viene chiesto implica anche una perdita di noi stessi, quella scaturisce dall’esercizio dell’umiltà. È quanto Gesù insegna ai discepoli nell’ultima cena compiendo il gesto della lavanda dei piedi. Gesù insegna che servire non è dare qualcosa agli altri, ma mettersi ai piedi degli altri, sotto di loro, tutto il contrario delle logiche mondane del potere: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,13-15). Il vero dono non è dare qualcosa che si ha agli altri, ma qualcosa che si è, se stessi.

Su questa identità di servizio come dono di sé, che illumina i rapporti tra le persone nella Chiesa e nella società, si misura la nostra fedeltà all’Eucaristia, l’essere cioè noi stessi, nella nostra vita e non solo nella celebrazione del rito, «memoria» di Cristo. Dall’Eucaristia nasce un mondo pacificato, in cui nessuno è rifiutato e tutti si fanno carico degli altri. Se come ricorda Gesù, nella parole con cui istituisce l’Eucaristia, il suo Corpo è per noi e nel suo Sangue si realizza una nuova alleanza tra Dio e l’umanità, noi facciamo nostra l’identità che scaturisce da questo mistero quando viviamo per Cristo e per i fratelli e quando collochiamo la nostra esistenza nella comunione che ci lega al Padre e ai suoi figli: «Fate questo in memoria di me» (1Cor 11,24.25).

Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze

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