Il 12 aprile 1939, la squadra inglese del Corinthian FC disputò la sua ultima partita di calcio: stava per scoppiare una guerra che quegli stessi calciatori avevano contribuito a fomentare
Fra gli appassionati di calcio, il nome Corinthians rimanda alla formazione brasiliana un tempo capitanata da Sócrates, che negli anni '80 del secolo scorso fece una breve apparizione con la maglia della Fiorentina e che era diventato celebre non solo per esser stato l'elegante leader della Seleção che l'Italia di Bearzot eliminò dai Mondiali del 1982, ma anche per aver messo il calcio al servizio della democrazia nel Brasile della dittatura militare instaurata dal colpo di stato del 1964.
Fu dopo aver visto una partita del Corinthian Football Club, una compagine inglese in tour nel paese sudamericano, che nel 1910 cinque operai del quartiere popolare Bom Retiro di San Paolo decisero di dar vita a una squadra in cui riconoscersi. Il primo presidente, l'italiano Michele Battaglia affermò: «Il Corinthians sarà la squadra del popolo e quindi il popolo deve fare la squadra». Per un'ironia della storia, i giocatori londinesi che impartivano lezioni di football agli ancora inesperti carioca, non potevano essere più diversi dai lavoratori che li avevano presi a modello e per cui rappresentavano una fonte d'ispirazione.
Quello che rese straordinaria l'esperienza del Corinthian FC non furono i loro successi, ma il modo in cui interpretavano il gioco: per i suoi fondatori e per i giocatori, gli ideali dilettantistici, la condotta cavalleresca e il fair-play erano di gran lunga più importanti del risultato. Inoltre, a uno dei suoi campioni, Charles Wreford-Brown, si deve con ogni probabilità l'invenzione del termine soccer: agli albori del gioco, il calcio era conosciuto in Inghilterra come Association Football e Wreford-Brown stava parlando con un compagno all'Università di Oxford, il quale gli chiese se gli sarebbe piaciuta una partita di “rugger”, abbreviazione della parola “rugby”, e la sua replica fu che avrebbe di gran lunga preferito giocare a “soccer”.
Il Corinthian fu fondato nel 1882 da Nicholas Lane Jackson, calciatore e dirigente della federazione calcistica, e fu così battezzato in onore della città greca di Corinto, nota per il benessere e la prodigalità dei suoi abitanti, e per il significato metaforico di "Corintiano", che all'epoca racchiudeva l'ideale della galanteria cameratesca e dell'impegno disinteressato. Dopo una doppia umiliazione patita dalla Scozia, prima a Londra (6-1 in favore degli scots) e poi a Glasgow (5-1 per i padroni di casa), Jackson si persuase che il vantaggio dei cugini fosse da attribuire alla maggiore familiarità reciproca dei giocatori che componevano la selezione nazionale, dato che un gran numero di loro proveniva dal Queen's Park FC, la più rinomata formazione dilettantistica scozzese. In poco tempo, l’Inghilterra colmò il gap e molto fu dovuto ai giocatori del Corinthian, che in più di 100 vestirono la maglia dei “Tre Leoni” e in una partita del 1894 contro il Galles fornirono tutti gli effettivi alla nazionale.
L’ossessiva adesione ai dettami comportamentali della high class e dei gentlemen era tale che alcune delle pratiche abituali del Corinthian appaiono oggi sensazionali e quasi comiche. Se un avversario si infortunava o veniva espulso, subito i corinthiani rinunciavano a uno dei loro per ristabilire l’imprescindibile equilibrio numerico. Addirittura inverosimile era il rifiuto di trarre vantaggio dal calcio di rigore: rigettando in toto il principio secondo il quale se esiste la sanzione massima per l’imbroglio (ossia, un fallo in area), è di conseguenza permesso imbrogliare a rischio della sanzione massima (appunto, il penalty), nei casi in cui beneficiavano di un calcio dagli undici metri, i corinthiani si limitavano ad appoggiare la palla al portiere rivale.
Argomentare o discutere con l’arbitro era semplicemente fuori da ogni logica, in osservanza della condotta che lo stesso Jackson seguiva indefettibilmente: un calciatore non deve cedere mai all’irritazione, deve dimostrarsi sollecito verso i compagni, astenersi dal profittare di meschini vantaggi, fuggire come un incomparabile disonore il solo sospetto di barare e affrontare con serenità il fallimento.
L'avversione di Jackson per l'intemperanza e l'indisciplina era pareggiata soltanto dalla sua ferrea opposizione al professionismo. Fino al 1923, il Corinthian rifiutò di misurarsi nel campionato o nella FA Cup e solo 40 anni dopo la fondazione accettò di prendere parte a competizioni che non avevano come obiettivo primario la sola beneficenza o la mera soddisfazione dei partecipanti. È pur vero che se avessero gareggiato contro i professionisti, i corinthiani avrebbero probabilmente sbaragliato la concorrenza, come dimostrò il loro successo per 8-1 sul Blackburn, fresco vincitore della coppa nazionale nel 1884, o la vittoria sui campioni dell'Aston Villa nel 1900 o ancora l'11-3 rifilato nel 1904 al Manchester United, che resta la più pesante sconfitta mai subita dai Red Devils.
Con la loro immacolata maglia bianca, i corinthiani erano figli del loro tempo e incarnavano alla perfezione gli ideali che nel 1863 avevano condotto alla fondazione della Football Association (FA) da parte di un pugno di entusiasti appassionati di pallone, che appartenevano senza eccezioni alla classe dirigente della più grande potenza mondiale. A ben vedere, si trattava di un’inclinazione con una forte connotazione classista, poiché solo i borghesi arricchiti dalla rivoluzione industriale e gli aristocratici rentier avevano il denaro che consentiva loro di dedicarsi a impieghi del tempo non utilitaristici. Quale operaio delle sempre più numerose fabbriche che appestavano l’aria delle sempre più popolose città britanniche poteva permettersi di non lavorare (seppur per paghe irrisorie) e andare in giro a tirar calci a una palla? Quale lavoratore delle campagne poteva trascurare i campi di duchi e marchesi per dedicarsi a uno sport qualunque senza mettere a repentaglio la vita sua e dei propri familiari?
La stessa insistenza sull’importanza di raggiungere i risultati senza sforzo apparente, contando soltanto sul proprio talento innato che non abbisognava di essere alimentato da estenuanti e avvilenti sedute di allenamento, celava un’esclusiva ed escludente visione del mondo. Non lavorare era proprio il tratto distintivo che separava i gentlemen dalla working class e di conseguenza l’allenamento era ritenuto una pratica plebea, che implicava fatica e sudore. Che un tale atteggiamento venisse dai membri di una classe sociale che aveva a lungo frequentato le scuole, dove erano ben nutriti e assiduamente sottoposti a regolari e probanti esercizi fisici, dimostra semmai che l’avvento del professionismo – duramente osteggiato dai vertici della FA – deve essere letto come un innegabile progresso verso l’universalismo sportivo che oggi appare così scontato.
In ultimo, il Corinthian e lo sport in genere erano al centro di un sistema valoriale legato a doppio filo con il patriottismo, il nazionalismo e il militarismo. Lo studente che si formava nelle prestigiose scuole superiori e nelle università imparava a giocare così come imparava a fare la guerra, perseguendo “le virtù tipiche del nobile guerriero, la sua disponibilità a sacrificarsi per il bene comune, la sua disciplinata obbedienza alla gerarchia del gruppo, il mutuo soccorso di fronte al pericolo”. Nell’immaginario collettivo, il valore formativo dello sport nell’elitario sistema educativo britannico non era disgiunto dall’etica imperialista della Gran Bretagna che reggeva il pianeta nell’epoca vittoriana.
Come ha osservato acutamente lo storico Niall Ferguson in “Il grido dei morti”, l’entusiastico ingresso inglese nella Prima guerra mondiale fu il risultato di un complesso ideologico che dai ceti dominanti si era diffuso al resto della società e che rivestì il conflitto bellico di una mistica romantica e virile, in attuazione del quale la Gran Bretagna concorse con piena responsabilità all’esacerbarsi della crisi diplomatica che infine sfociò nella deflagrazione del 1914-18.
Quando il Corinthian FC, il 12 aprile 1939, giocò l’ultima partita della sua storia, l’Europa e il pianeta intero erano sul punto di disputare il secondo tempo della catastrofe bellica che ha segnato tutto lo sviluppo del XX secolo.
Paolo Bruschi