Andrea Meini, Il linguaggio delle cose mute: la mostra a Fucecchio

E' un pittore mite Andrea Meini, nel senso alto della maturità e della dolcezza, dell'ispirare sentimenti di mansuetudine e di gioia. Il suo segno aspira ad un futuro più attento alle ragioni dell'anima bella, meno alla durezza dell’oggi e ad un'espressione che in questo senso speriamo effimera.

Tutto questo è almeno anacronistico, ma siamo qui a segnalare una sua importante antologica (oltre cento opere) ospitata ancora per qualche giorno al Palazzo delle Arti di Fucecchio, arricchita da un bel catalogo dove, oltre ai saluti di Daniele Cei, assessore alla cultura del Comune di Fucecchio e di Andrea Vanni Desideri, direttore del Museo Civico, ci sono due interessanti saggi di Massimo Tosi e di Leonardo Terreni, dal quale scopriamo un Meini giovanissimo allievo di Gino Terreni, grande pittore, oltre che padre di Leonardo.

Tutto questo per ribadire il fatto che Andrea Meini è più legato alla tradizione che all’oggi, un oggi spesso fuori dal quadro, con artisti che replicano azioni e performance della loro gioventù, provocazioni costruite per un'epoca e per un attimo, creando copioni un po' squallidi, da replicare senza che quasi nessuno provi a scrivere in senso opposto.

La pittura di Andrea Meini, invece, si lega mani e piedi ad una lunga storia figurativa, che parte da una esecuzione di grande pregio, a sfiorare a volte la maniacalità. Ci sono alcune immagini davvero stupefacenti, eseguite ad acquarello, grandi opere dove la mano del pittore sembra distanziare vedute banali, dando loro una dimensione diversa, direi poetica.

Si pensi all'obelisco stradale – non ricordo se esposto o no a Fucecchio - nella zona di Santa Maria ad Empoli. Ci sarebbero da scrivere intere pagine sul senso di quella colonna granducale, che si lega a tante colonne più o meno trionfali, a cippi che invadono l'Italia, molti dei quali – come questo – quasi dimenticati, compreso il loro senso celebrativo, commemorativo o ancora di semplice utilità sociale.

Perché questa Colonna di Santa Maria ha una funzione di indicatore stradale, dividendo la via che va verso San Miniato e poi Livorno da quella che si muove verso Fucecchio e poi Lucca, ma è anche un elemento di propaganda del bello e del buono, in un'epoca in cui le strade della Toscana crebbero di oltre il cinquanta per cento, grazie all'impegno granducale, con progettisti di valore, come l'ingegner Giuseppe Manetti e suo genero, Carlo Reishammer, due uomini di enorme peso ideativo e anche costruttivo, che mischiavano le forme classiche all'utilizzazione, extra ordinarietà, di un materiale come la ghisa.

Le tracce di questo lavoro – che sono anche nella citata colonna - esistono ancora oggi in decine di opere in tutta la Toscana e anche fuori, in particolare a Follonica, dov'erano le straordinarie fonderie granducali.

Ebbene – perché il discorso ci porterebbe troppo lontano – che cosa ha fatto Andrea Meini? Così come le maestranze del Granduca, ha dato spessore a qualcosa che a rigore non lo avrebbe meritato. Certo la Colonna, la chiesa di Santa Maria, lì accanto, altri edifici storici, ma anche altri elementi di particolare “presenza scenica”, come le

file di automobili, che entrano all'interno del quadro, e i lampioni, le colature di umidità sulle pareti delle case, i segnali stradali, le strisce per terra o i cavi della luce che attraversano lo spazio visivo, tutto diventa co-protagonista, perché – lo vogliamo o no – è ormai parte del nostro sguardo sul mondo.

Ci sono tanti artisti che ripuliscono per noi le loro realizzazioni pittoriche, la loro visione, nelle loro opere non ci sono cose brutte, non ci mostrano quello che non vorremmo vederci intorno, nei centri storici e nelle immagini d'insieme.

Meini no, la sua mitezza va anche in questo senso, dà conto della realtà, riesce a vedere e a mostrare, riesce a rendere romanticamente belle anche cose che a rigore non lo sarebbero, può dipingere l'Arno o le piazze della sua città natale o di alcuni centri vicini, mostrandone il degrado, o comunque i segni del tempo, che sono fatti anche di elementi che potrebbero disturbare.

Si pensi a due pittori, quasi coetanei, De Chirico e Sironi, il primo mitizzava le sue visioni, le sue erano soprattutto spazi e figure metafisiche, gli uomini erano ritratti come possibili dei; il secondo riempiva i quadri con i segni del tempo, camion, fabbriche, grigio e fumi, poveri cristi, anche eroi, ma pieni di spigolature e di contemporaneità.

Meini può richiamare entrambi gli artisti, in particolare per la sua capacità tecnica, ma mi sembrerebbe più affine a Sironi, proprio per il modo con cui rappresenta la realtà, trasformando in mito quello che si potrebbe vedere come lo squallore della contemporaneità.

Non ci piacciono i suggerimenti che a volte si danno agli artisti, ma in questo caso non possiamo far a meno di chiedere a Meini di insistere su questo cammino, nel quale potrebbe inserire tante situazioni, che potremmo definire di “squallore visivo”, che entro le sue “visioni” possono diventare opera d'arte.

Questo mi pare raccontino le sue opere, anche quelle presenti in mostra, dedicate alle figure, ai volti. Sono spesso ritratti che occupano per intero il quadro, già di per se stesso di dimensioni ragguardevoli, sono paesaggi dell'anima, che sembrano non entrare nel recinto comunque limitato dove lavora il pittore.

Si pensi a ritratti come quello di Tolstoj, ma anche ad altri dove il colore del fondo, diventa l'anima della figura rappresentata, un'anima che supera la cornice e fa risaltare il volto – ad esempio quello di Primo Levi – che sembra emergere dalla tela.

O ancora quelli – bellissimi – dei tre partigiani, i cui volti si ergono enormi, nascono da grandi tele, dipinte di bianco, di rosso e di verde. Da loro, dalla loro lotta è nata la nostra bandiera, e anche la storia di oggi, una storia – speriamo – di uomini miti e anche di bovi gentili, splendidi nella loro magnifica postura e dimensione.

La mostra di Fucecchio si snoda per le molte stanze del Palazzo delle Arti di divisa in varie sezioni, quelle dei paesaggi campestri, quella dei paesaggi urbani, gli autoritratti, i ritratti di persone, i ritratti che definiremmo civili, i nudi, l’arte sacra, le nature morte, gli animali. Le tecniche sono varie dall’affresco all’olio su tela, ma sono numerosi i grandi acquarelli eseguiti con straordinaria maestria, che non manca comunque in nessuna delle opere esposte. C’è anche un piccolo disegno che mostra un altro dei maestri di Meini, cioè il prof. Giorgio Giolli.

Tra queste opere ce ne sono alcune che preferiamo rispetto ad altre, opere che il pittore ha spesso fatto solo per se stesso e che escono solo adesso dal suo studio, dopo

anni dalla loro esecuzione. Penso ad esempio agli splendidi nudi – come quello intitolato “Cuscini”, che a noi ha ricordato Lucian Freud, ma anche ad alcuni ritratti come quello di un “Sopravvissuto ala strage di Vinca” o l’altro di Paolo Lorenzo, senza dimenticarci le opere di arte sacra, proprio a quelle anzi facciamo riferimento per capire la dimensione dell’artista Andrea Meini.

Avrebbero potuto essere semplici quadri devozionali e invece portano un contributo di grande spiritualità, sto pensando ad esempio al “Compianto” o al potente ritratto di San Pietro Igneo, che cammina su un fuoco splendido che si accende sotto l’enorme manto bianco del santo.

Fonte: Ufficio Stampa

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