Una città che si fa porto è una città che ha un'anima, che accoglie, che sa trasformare in risorsa le diverse generazioni e le giovani forze che in essa approdano o solo circolano. A Medì, il convegno internazionale delle Città del Mediterraneo promosso dalla Comunità di Sant'Egidio nella Goldonetta, si è disegnata come una mappa di crescita e futuro, tracciando diverse rotte.
Città-madri che sappiano dare vita e futuro: così Halima Aissa, tunisina, che con altre donne dell’associazione Ardepte mostra i volti e le storie dei giovani tunisini scomparsi nei viaggi verso l’Europa, in Siria e medio-oriente. “Dobbiamo pensare al futuro dei nostri ragazzi, la cui vita è minacciata da sogni folli, spinte violente, ma esprime anche un desiderio di futuro e di sviluppo inarrestabile”. “Il vero problema del nostro Paese non sono quelli che arrivano ma i tanti giovani che se ne vanno”, sostiene Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant'Egidio. Sono 985 mila i ragazzi italiani andati via dalla penisola in pochi anni, un fenomeno della portata simile al flusso migratorio che l’Italia conobbe negli anni ‘30. “Livorno è un microcosmo del vivere mediterraneo”, dice Riccardi: “ e l'anima della città mediterranea, sia Istanbul o Roma, Trieste o Beirut, è l'incontro”. Occorre ritrovare una nuova passione civile e comunitaria per le nostre città.
Città dell’incontro quindi, in cui le religioni, sollecitate dai vuoti culturali e valoriali alla trasformazione in passioni e degenerazioni identitarie, possano invece accompagnare la circolazione delle persone orientandole all’apertura e alla conoscenza dell’altro. Così Olivier Roy (Istituto Universitario Europeo) che coglie nel passaggio dal mondo rurale alla prevalenza di quello urbano una delle prime cause dello smarrimento contemporaneo. “Ricominciare dal locale – continua Roy – a costruire tessuti umani e pacificati, abbandonando la nostalgia per lo Stato-Provvidenza o le risposte facili dei populismi, e rittrovando il valore della responsabilità personale e collettiva”.
Un esempio? Ce ne sono tanti nelle voci e nei volti del Mediterraneo presentati a Medì. Uno fra tutti quello di Dafne Caruana Galizia, la “voce di Malta”, uccisa nell’ottore del 2017 per la sua intensa e costante denuncia dei traffici illeciti presenti nell’isola, legati alle società off-shore, nonché il coinvolgimento di alcuni eminenti politici maltesi nei Panama Papers. La sua vicenda, raccontata dalle parole coraggiose di Manuel Delia, giornalista de The Times of Malta, che ne ha raccolto il testimone, denunciando l’appropriazione dello Satato dalle internazionali del crimine, reclama “verità e giustizia”. Platea in piedi davanti all'immagine della giornalista maltese, tre minuti di applausi.
Zakharjia, viene dal Senegal, ha raccontato la sua storia del terribile passaggio dalla Libia fino a Livorno : prima il deserto dove viene abbandonato con un amico di trafficanti. La marcia tra le dune per giorni, fino ad arrivare in Libia, dove vengono gettati in prigione senza nessun motivo, per estrorcergli soldi. “Ti mettevano a sedere e uno veniva davanti a te e ti diceva di chiamare i tuoi genitori per farti mandare i soldi. Se dicevi che i tuoi genitori non avevano niente, allora ti facevano 3 volte la domanda per farti chiamare: alla terza volta che tu rifiutavi di chiamare a casa per farti inviare i soldi, ti bastonavano nudo.” Dieci alla volta davanti ai torturatori, costretti ad assistere alle violenze sull’altro. Le minacce ai familiari, le terribili condizioni delle prigioni. Poi il tragitto in mare: “Due ore dopo la partenza il motore non funzionava più e ci siamo fermati in mezzo al Mediterraneo, dove siamo rimasti altre due ore, con il rumore che facevamo noi (chi urlava”Moriremo qui!”, chi piangeva …), sono arrivati 4 squali che ci giravano intorno alla barca, con la pinna fuori … Io li avevo visti solo nei film. […] Poi è arrivato l’elicottero e dopo mezz’ora è arrivata la barca della Croce Rossa per salvarci. Siamo rimasti un giorno nella nave e poi siamo sbarcati in Sicilia. Era il 13/4/15 e ci hanno messo in fila per chiederci i nostri dati. Siamo rimasti in Sicilia una notte e poi il 14 è arrivato il pullman”. Infine a Livorno: “Ora sono qui, in questa città di Livorno che mi piace tantissimo e mi sento cittadino di questa città: ho un lavoro e quando non lavoro, vado con altri ragazzi della scuola ed alcune nostre insegnanti della scuola di italiano a trovare alcuni anziani di un istituto del centro e questo mi dà tanta gioia.”
Attraverso due citazioni (Rutilio Namaziano, un poeta della tarda latinità, e le Livornine) lo scrittore livornese Simone Lenzi ha spiegato che “prima dell'origine di questa città c'è dunque il bisogno di preparare il terreno, di darsi da fare perché sia in qualche modo possibile una fondazione” e che i Medici hanno dato fondamento alla città poichè “nel sogno mediceo la fondazione di Livorno passa dunque per un appello ai mercanti di ogni latitudine a popolare questa città nuova”. Ma spinto verso il presente Lenzi conclude: “Fra la visione della città di cui questi due testi recano testimonianza e la sua realizzazione, c'è dunque un attimo di pienezza laboriosa che, come nel Faust di Goethe, andrebbe colto e eternato, e da cui bisogna ogni volta ripartire perché le avversità del presente non ci costringano alla resa. Il presente, infatti, ci parla di una pericolosa tentazione alla chiusura, alla recinzione di orticelli che non danno più frutto, alla costruzioni di muri. Ce ne parla anche a Livorno, una città, questa città, che negli ultimi anni si è crogiolata in uno sciagurato sogno di autosufficienza che tradisce la sua più intima vocazione e il suo stesso destino. […]Livorno è nata invece per incarnare un sogno che aveva da essere reale, libero e amplissimo, su un terreno che, in vista di questo, andava preparato. Ecco: preparare il terreno. Credo sia proprio questo desiderio a ispirare il presente incontro e, più in generale, l'opera spesso poco clamorosa ma proprio per questo tanto più efficacie e indispensabile della Comunità di Sant'Egidio, che con generosa pazienza lavora da sempre alla bonifica culturale di un terreno di incontro possibile, perché ogni incontro possa essere finalmente reale, libero e amplissimo.”
Alle città come Livorno fa riferimento Anis Issa, di Alessandria, intellettuale copto-ortodosso e assistente culturale del Patriarca di Alessandria Tawadros II, per il quale “la diversità culturale, il cosmopolitismo, sono la vocazione della città, elisir di giovinezza e fonte di bellezza”.
I bambini delle Scuole della pace di Sant'Egidio hanno reso un omaggio all'isola di Lesbo, donando una raccolta di fondi consegnata ad Eric Kempson. Ex manager del Safari Park di Portsmouth (Inghilterra), Kempson si è trasferito con la famiglia a Lesbo nel 1999 dove ha avviato una piccola azienda agrituristica. Nel 2015 Eric e la sua famiglia sono stati i primi e tra i pochi soccorritori dell'ondata di persone, 600.000 sbarcate fino ad oggi a Lesbo, in fuga dalla Siria e dal Medio oriente, attraverso il mare. Eric e sua moglie Philipa hanno promosso il progetto Hope per l'accoglienza e il salvataggio dei profughi nelle acque dell'Egeo.
A Medì anche il saluto del vescovo Simone Giusti, richiamando la necessità di “superare il dramma che vive il Mediterraneo e le città di questo mare e il programma dei Corridoi umanitari quale esempio di una politica europea accorta e intelligente”. Seicento i profughi dal Corno d’Africa accolti dalla CEI giunti in Italia attraverso i Corridoi; 2400 quelli arrivati fino ad ora dalle zone di guerra. Deciso l’invito del Vescovo, considerando le imminenti scadenze elettorali, a mettere al centro delle politiche europee la questione migratoria: “Porte aperte a chi ne ha bisogno”. La Vice Sindaco Stella Sorgente ha poi sottolineato come elemento distintivo di Livorno, lo spazio aperto, la capacità di includere e poi di integrare dal basso; ricorda i nuovi cittadini, la scelta del consigliere aggiunto perché abbiano rappresentanza, l’attesa della città di rigenerarsi anche con il loro aiuto.
Per approfondimenti, storia di Zakharjia
Mi chiamo Zakharjia e sono nato nel 1989 in Senegal, in Africa. Vi racconto la mia storia. In Senegal ho la mia mamma e le mie due sorelle. Ho perso il mio babbo quando avevo 12 anni. A mezzogiorno, mentre ero a scuola, mio zio ha chiamato la mia maestra per avvertirla della morte del mio babbo. La maestra mi guardava con gli occhi fissi su di me e mi chiamò in ufficio. Mi disse: “Sei un ragazzo intelligente, la tua famiglia ha bisogno di te, del tuo coraggio per andare avanti”. Ero contento che la maestra mi dava consigli.
Dopo 15 minuti entrò mio zio con gli occhi rossi, mi abbracciò e mi disse “Abbi forza, abbi forza!”
Con calma poi me lo disse il mio migliore amico ed io sono rimasto a bocca aperta, non potevo dire nulla e mi sono ricordato quello che mi aveva detto la maestra.
Dopo 5 anni la mia mamma non poté più lavorare per alimentare la famiglia. A 17 anni non ho potuto continuare i miei studi e sono andato a Dakar per cercare un lavoro.
Dopo 2 settimane di ricerche ho trovato un lavoro. Dormivo fuori, la mattina nascondevo il mio zaino per andare a lavoro. Lavoravo in una profumeria. Dopo 3 mesi di lavoro ho potuto prendere una casa in affitto e ho iniziato a VIVERE bene con la mia famiglia.
Dopo 2 anni, con quello che mi pagavano, non riuscivo più a pagare l’affitto e a mandare i soldi alla mia mamma. Allora ho lasciato la casa in affitto e sono andato a stare con i miei amici.
Dopo 3 mesi ho chiamato la mia mamma per dirle che volevo andare in Libia e lei mi domandava “Perché?” e allora le ho raccontato tutto quello che era successo. La mia mamma mi diceva sempre “Noi siamo dietro di te, devi sapere quello che tu hai lasciato indietro.”
Tanti scappano perché non bastano i soldi per vivere e per mandarli a casa.
Altri hanno problemi per la religione, per la famiglia… altri sono persone abbandonate.
Ci sono bambini abbandonati perché non possono stare con le famiglie e li mandano a studiare il Corano nelle scuole, ma molti scappano, così non stanno né con i genitori né con chi gli insegnava il Corano.
Dopo essere partito dal Senegal, sono andato in Mali e sono stato lì per una settimana. Lavoravo come muratore per potermi mantenere e fare un altro pezzo di viaggio e per andare in Burkina Faso. Quando ho avuto i soldi necessari ho preso un pullman e sono stato 2 giorni in Burkina. Lì mi sono incontrato con un amico che mi ha aiutato a pagare il viaggio dal Burkina al Niger e ho fatto 20 giorni in Niger. Ho lavorato anche se non c’è lavoro. Andavo nelle stazioni dove arrivano i ragazzi e li facevo incontrare con gli autisti che facevano il viaggio verso la Libia. Solo i Pick up possono andare in Libia perché devono attraversare il deserto. Ho pagato 120 sefa. Poi ti chiudono in una stanza in affitto fino a quando non parti, con materassi e coperte.
Puoi pagare 120 sefa e poi puoi scappare perché non ce la fai ad aspettare oppure puoi pagare e poi ti abbandonano nel deserto.
Noi siamo partiti il primo giorno di Ramadan. Mi hanno lasciato sulla strada a 20 km da Durku. Eravamo 35 persone. Era finita l’acqua ed il mangiare dopo una settimana lì.
Allora abbiamo iniziato a camminare per vedere cosa c’era e dietro ad una duna c’era un piccolo paese: c’era una donna, il marito ed una bimba. E qui ci siamo fermati per i giorni del Ramadan e abbiamo condiviso tutto il Ramadan con loro.
Non c’era niente, solo i datteri e quello mangiavamo.
Avevano portato cous cous, tonno, e latte in polvere che puoi portare dove vuoi, altrimenti andrebbe a male.
C’erano quelli con i soldi e quelli che non li avevano.
Ognuno pensava a sé: se ti aiuto non posso salvare me. Avevo buste di cous cous, e una busta di latte in polvere e lo abbiamo condiviso io e Moussa e abbiamo raggiunto gli altri che mangiavano i datteri. Solo acqua avevamo alla fine perché alla fine erano finiti anche i datteri.
Dopo 20 giorni non avevamo più la forza. Eravamo persi. Io ho pensato che era finita e che lì sarei morto e che nessuno avrebbe saputo che ero lì in mezzo al deserto. Non avevo neanche la forza di pensare alla mia famiglia, ero fuori…
Io e il mio amico abbiamo deciso di partire per fare quei 20 km, perché era meglio che rimanere lì.
Era caldissimo dalle 7 alle 19 e non potevamo camminare. Dalle 20 è tutto più calmo, è freddo e puoi camminar. Noi abbiamo camminato fino alle 5 della mattina senza fermarci.
Quando siamo arrivati nella città ci siamo fermati nel campo militare e ci hanno indicato la strada per andare in città.
La fortuna è stata che abbiamo trovato un arabo che conosceva quello al quale avevamo dato i soldi e che ci aveva lasciati in mezzo al deserto e abbiamo conosciuto anche il fratello. Ci ha chiesto cosa era successo e ha chiamato quello che ci aveva abbandonati.
Solo quella camminata poteva salvare le nostre vite, perché nessuno va a prendere le persone abbandonate da altri trafficanti. Ti lasciano lì, non hai altre possibilità.
Quando lo hanno chiamato, l’arabo ha detto “io vi porto in Libia” e poi mi faccio dare i soldi.
L’arabo ha chiamato il mediatore che era in Libia e che aveva il mezzo di trasporto per andare avanti.
A quel punto con i soldi abbiamo avuto la fortuna di andare avanti con lui, abbiamo comprato la benzina, il mangiare…
Appena arrivati in Libia (Gatrun) siamo andati subito in galera, portati dalla Polizia che era d’accordo con la mafia.
Avevano una persona in Libia ed il conto in Senegal, dove i genitori che venivano chiamati dai figli, mettevano i soldi.
Mia mamma non l’ho chiamata perché non aveva i soldi. Aveva problemi di cuore la mia mamma e se la chiamavo, lei moriva prima di me. Quando entravi nella stanza dove ti maltrattavano, mettevano una batteria, collegata ai fili elettrici, l’acido, un bastone ed un coltello.
Ti mettevano a sedere e uno veniva davanti a te e ti diceva di chiamare i tuoi genitori per farti mandare i soldi. Se dicevi che i tuoi genitori non avevano niente, allora ti facevano 3 volte la domanda per farti chiamare: alla terza volta che tu rifiutavi di chiamare a casa per farti inviare i soldi, ti bastonavano nudo. Chi vedeva questo, chiamava subito a casa! A volte stavano con il telefono collegato anche 24 ore e dal telefono ascolti tuo figlio, bastonano tuo figlio e lo senti che piange e la mamma fa le cose che non deve fare, o le fa fare alla sorella o al fratello le cose che non devono fare…..
La mattina alle 6 io avevo già preparato tutto, era un venerdì.
Ero venuto in Libia per lavorare perché mi avevano detto che si lavorava bene.
“Guarda quella finestra nel bagno – ho detto a Moussa – di lì si passa” e mentre la guardia era girata noi siamo saltati fuori, tutti e 10.
Alle 8 toccava a noi l’interrogatorio ed io ero il numero 6… A loro i nomi non interessavano. “Numero 6 vieni… e sei te!”- così mi dicevano.
Siamo andati in città, io e Moussa e siamo entrati in una casa di persone umane e una signora anziana subito ha aperto la sua porta e ha detto “Entrate figlioli”.
Siamo entrati ed ha chiuso la porta.
Aveva 3 figlioli grandi ed ognuno aveva la sua arma. “Voi qui siete protetti, salvi” e siamo rimasti con quella donna anziana che ci faceva arrivare salio a Tripoli, tramite i figli che portavano le persone con il pick up. Abbiamo pagato 250 dinar. Lavorando per lei abbiamo guadagnato questi soldi: aveva un orto da coltivare e aveva bisogno anche di un muratore. Abbiamo lavorato un mese per lei e abbiamo costruito un appartamento con 2 camere ed un salotto.
Quando siamo entrati a Tripoli, di venerdì, perché c’era meno controllo, ci siamo nascosti nel traffico di Tripoli e con il traffico la polizia non può fare i controlli a tutte le auto. Eravamo nascosti dietro il pick up, coperti, senza che ci vedessero. Quando siamo arrivati a destinazione, ci ha presi subito la polizia e ci ha portati in prigione.
La polizia anche qui è d’accordo con la mafia, quindi la polizia ti dà ai mafiosi, che ti maltrattano e poi fanno a metà con i soldi. Questi mafiosi ti maltrattavano in un altro modo: ti fanno lavorare per loro e li fai guadagnare e noi avevamo solo pane e latte o fagioli con la sardina, perché così gli costavamo poco.
Un giorno siamo andati da un allevatore e dovevamo pulire dove c’erano le mucche e c’erano 2 di loro con le armi e noi eravamo 5. Io ho detto al mio amico Moussa “Io scappo, qui non posso stare” e lui mi ha detto “Non andare, che ti sparano”. E io sono scappato perché c’era un cavallo fuggito dalla stalla e il proprietario ci ha detto di prenderlo e tutti sono andati da una parte, anche le guardie e io sono scappato dalla parte opposta, c’era una bicicletta e l’ho presa e sono scappato. C’era una città davanti a Tripoli, Tagiura, e ho incontrato dei nigerini, che avevano una casa in affitto.
Usano la tua paura per farti fare quello che non devi fare.
Qui ho lavorato un po’ con i nigerini e andavo a fare il muratore con loro e mentre facevo il muratore cercavo chi mi potesse far uscire da questo disastro, da questa paura. Un giorno ci siamo divisi in 3 gruppi e sono andato a lavorare come muratore e ho rincontrato il mio amico Moussa e mi ha detto che aveva trovato una persona che poteva aiutarci ad andare avanti, uscire dalla Libia, perché in Libia non potevamo rimanere: buttavano la bombe, sparavano per strada, avevano ucciso una ragazza quel giorno... quindi non potevamo rimanere.
A quel punto siamo andati da un arabo che ci ha detto che l’unica soluzione è l’Italia. “E perché?” “Perché tutti vanno lì!” Ha detto che ci portava, con una barca per andare fuori dalla Libia.
Abbiamo pagato tutto quello che avevamo e siamo andati alla “connection house”, dove tutti si riunivano prima di partire. Siamo stati due giorni. Il secondo giorno a mezzanotte è arrivato un furgone per trasferirci al mare. Quando siamo arrivati al mare ho visto il gommone che era sull’acqua e ho chiesto “Quella è la barca?”, lui mi ha detto “Te stai zitto oppure faccio un buco e ti ci metto dentro!” Ho detto: “Non vedo la nostra destinazione con questo gommone, moriremo in mezzo al mare! Ma è meglio che morire sparato per strada. In mezzo al mare forse qualcuno ti può venire a salvare, ma qui muori peggio di tutti!” Eravamo 85 persone più 3, quello che guidava, chi aveva il GPS e quello che aveva il telefono. Sul gommone avevano messo dei legni che andavano da una parte all’altra e ci facevano sedere sopra i legni, nello spazio trai legni e tutto intorno al bordo del gommone. C’era un altro gommone da sistemare, dove era Moussa. Fino alle 5 della mattina abbiamo preparato per partire, eravamo quasi 200 persone in tutto. Da lì non ho più visto Moussa, ma ci sentiamo, lui è Milano. C’erano anche altri ragazzi che ho rincontrato qui a Livorno e abbiamo fatto anche la scuola insieme. Due ore dopo la partenza il motore non funzionava più e ci siamo fermati in mezzo al Mediterraneo, dove siamo rimasti altre due ore, con il rumore che facevamo noi (chi urlava”Moriremo qui!”, chi piangeva…), sono arrivati 4 squali che ci giravano intorno alla barca, con la pinna fuori… Io li avevo visti solo nei film..
Il capitano ci ha detto di stare calmi perché gli squali aspettano che facciamo rumore, per rompere il gommone. Quando si sono agitati gli squali, il capitano ha preso la benzina, per dare fuoco e questo li ha fatti scappare, ma noi siamo rimasti lì e il gommone si stava sgonfiando. Per nostra sorpresa è arrivata la Marina della Tunisia. E gli abbiamo detto che volevamo tornare a casa nostra o in Tunisia, ma loro ci hanno detto che non ci potevano salvare.
Abbiamo aspettato ancora. Alle 14 abbiamo chiamato un numero al cellulare come SOS. Ci hanno detto di aspettare perché arrivava una barca a salvarci. C’era una barca giapponese che portava gas e ci è venuta a salvare. Hanno buttato 3 corde per agguantarci, ma tutti avevano paura. Se tutti andavano verso il bordo, allora la barca si capovolgeva. Allora il capitano ha tagliato tutte le corde.
Poi è arrivato l’elicottero e dopo mezz’ora è arrivata la barca della Croce Rossa per salvarci.
Siamo rimasti un giorno nella nave e poi siamo sbarcati in Sicilia. Era il 13/4/15 e ci hanno messo in fila per chiederci i nostri dati. Siamo rimasti in Sicilia una notte e poi il 14 è arrivato il pullman e con la fortuna siamo arrivati a Livorno.
Il mio primo giorno a Livorno siamo andati in Via Piave, dopo essere stati in Comune per la registrazione. Eravamo in 20 e poi con il Cesdi siamo andati in questura per le impronte.
Ci hanno detto che dovevamo andare a scuola ed integrarci.
Per facilitare l’integrazione ci deve essere apertura da parte della gente della città ma anche da parte di noi stranieri, perché devi accettare che quello non ti risponde se chiedi dove è una piazza o una via.
Ora sono qui, in questa città di Livorno che mi piace tantissimo e mi sento cittadino di questa città: ho un lavoro e quando non lavoro, vado con altri ragazzi della scuola ed alcune nostre insegnanti della scuola di italiano a trovare alcuni anziani di un istituto del centro e questo mi dà tanta gioia, nonostante la tristezza di vedere gli anziani che non sono con le loro famiglie. In Africa questo non succede! Mi ha fatto sentire utile andare da loro, mi ha fatto sentire che faccio parte di questa città e che anche io posso fare qualcosa per far stare meglio la gente della mia città. Credo che posso portare alla città la mia capacità di consolare gli altri, vista la mia esperienza passata prima di giungere in Italia. E credo anche che forse la mia vita è stata protetta perché arrivassi fino a qui e potessi dare il mio aiuto per costruire un paese più umano, una città migliore.
Fonte: Comunità di Sant'Egidio Ufficio stampa
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