Estrapolando dai dati del censimento 1951, intorno al 1946-1947, l’assetto socio-economico della CITTA’ era prevalentemente agricolo con una media di addetti ad settore primario del 53,41%.
Il comune con il più alto indice di ruralità era S. Maria a Monte con oltre il 65% di addetti, mentre i minimi venivano toccati da Santa Croce e Fucecchio che già si presentavano come centri di attività artigianali e terziaria.
Non nell’alto medioevo, ma nella seconda metà degli anni quaranta del Novecento, nel nostro Valdarno di Sotto, la vita nei campi era regolata da rigide regole gerarchiche che ripetevano schemi consuetudinari. Nelle Fattorie, il fattore oltre a svolgere funzioni amministrative e finanziarie si attribuiva poteri giurisdizionali, e la sua influenza si faceva sentire persino nella vita privata delle famiglie coloniche. Si accordavano matrimoni e battesimi. Il denaro circolava pochissimo perché anche i risparmi delle famiglie erano amministrati dal fattore e l’erogazione di liquidi avveniva per avvenimenti straordinari. La riscossione della “busta paga” per quei contadini che cominciarono a lavorare nelle fabbriche fu un evento traumatico e psicologicamente incisivo, per chi fino ad allora era abituato ad un’economia prevalentemente di scambio. Anche le condizioni allora durissime delle nove ore e più in conceria, rappresentavano già un notevole miglioramento della qualità della vita rispetto ad un’attività che non conosceva soste se non per i pasti e il riposo notturno. Così appena le concerie e poi i calzaturifici cominciarono ad aver bisogno di braccia in modo sempre più massiccio, l’ abbandono dei campi prese l’aspetto di una vera e propria fuga.
Ouesti anni videro, soprattutto nei comuni a sinistra dell’Arno, svolgersi aspre lotte mezzadrili per la modifica dei patti colonici e il sorgere di un sempre più numeroso proletariato artigianale.
Dalle zone del Padule e delle Cerbaie, dalla Val d’Egola e dalla Val d’Elsa, sempre più numerosi i contadini andavano ad ingrossare centri di Fucecchto, Santa Croce e Ponte a Egola.
DAL 1956 AL 1960
Lo sviluppo conciario e calzaturiero presentò, dal 1957 al 1960, un increnento notevole per quanto riguarda le concerie e i calzaturifici a carattere artigianale. Complessivamente nella CITTA’ si passò dalle 315 unità locali del 1951, alle 499 del 1961. Gli addetti salirono da 1940 a 3505.
Tali incrementi furono concentrati a Fucecchio, Santa Croce e Ponte a Egola. Per il settore delle calzature, mentre a Montopoli (zone di S. Romano e Capanne), e San Miniato ( Cigoli e Ponte a Egola), i calzaturifici avevano caratteristiche artigianali, a Santa Croce, Castelfranco di Sotto, Fucecchio e S. Maria a Monte, in totale circa 120 calzaturifici, era prevalente la dimensione industriale.
Parallelamente all’espandersi delle aziende e delle industrie del cuoio e delle calzature, sorsero laboratori dove si svolgevano fasi intermedie e sussidiarie della lavorazione. Tale sviluppo, legato all’iniziativa di piccoli e medi imprenditori, quasi tutti ex-mezzadri, non trovò al suo nascere una regolamentaziose adeguata e incanalata in determinate linee di espansione. Ad eccezione del Comune di Santa Croce sull’Arno che dal 1959 si dotò di un Piano Regolatore Generale, gli altri comuni ne erano e resteranno a lungo sprovvisti. Sorsero dovunque, anche accanto ed abitazioni civili, piccole unità locali. Tutto questo avvenne in modo spontaneo secondo l’esclusiva logica della conduzione familiare e minò fin dall’inizio la salubrità dell’ambiente e la crescita armonica del territorio. La mancanza di un efficace e lungimirante Piano Regolatore si fece sentire particolarmente a Ponte a Egola dove si continuò a produrre nelle vecchie concerie e le nuove vennero costruite un po’dappertutto con gravi compromissioni dell’assetto urbanistico.
Forse in quegli anni le preoccupazioni erano di altra natura. Il profitto immediato e consistente, le possibilità per gli ex-mezzadri di farsi imprenditori, l’alba di un notevole benessere materiale che si stava delineando, resero insensibili operatori economici e amministratori riguardo ai pericoli che in futuro sarebbero derivati dal profondo dissesto del territorio.
In questo quadro socio-economico cominciarono ad arrivare dal meridione e dalle isole i primi contingenti di immigrati che andarono in un primo tempo ad occupare le terre abbandonate dalla popolazione contadina, e poi, appena trovarono una occupazione nelle imprese, si insediarono nei vecchi centri storici. Si iniziò così anche quella trasformazione che vedrà nell’arco di un decennio la meridionalizzazione delle campagne e dei Centri storici senza che per questi ultimi si ponesse in atto un’opera di risanamento. Alla vigilia delle comunali del 1969, il sistema economico della Città delle Pievi gravitava intorno all’industria manifatturiera.
Infatti la media degli addetti all’Agricoltura era del 29,35% mentre nell’artigianato e nell’industria trovava occupazione il 52,20%
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