Due mi sembrano le condizioni decisive perché il Carnevale, così vasto, ricco e articolato, sia attecchito qui e non altrove nel nostro Valdarno: l'indole dei santacrocesi e la loro storia. L'indole ha in qualche modo segnato la storia di Santa Croce e la storia a sua volta ha plasmato l'indole o carattere che dir si voglia. Molti abitanti di quello che fu il castello di Santa Croce, ci metteranno tre secoli ad abbandonare del tutto i loro villaggi e le rispettive parrocchie di San Vito, San Tommaso, Sant'Andrea attaccati com'erano alle loro terre. Ostinati, si può dire, se si pensa a quanto era più sicura la dimora fra le mura turrite. Ostinati e avventurosi se si pensa che nei secoli XIII e XIV mercanti santacrocesi erano attestati perfino in Sicilia.
La stessa beata Oringa Cristiana fu ribelle e contestatrice in quanto rifiutò le nozze, fuggì dalla casa paterna e al ritorno fondò un cenobio nel 1279 da una donazione del comune. Questa donazione alla “santa” dimostra anche l’aspetto di generosità, allora permeato di spirito religioso, dei santacrocesi. Generosità e litigiosità che andranno a braccetto nella sua storia plurisecolare.
Riguardo allo stemma, a conferma del carattere risoluto e non compromissorio dei santacrocesi, siamo davanti ad una testimonianza di una Santa Croce dal 1330 ben schierata con Firenze, ma nello stesso tempo autonoma dalla potenza dominante, gelosa delle sue istituzioni e delle sue leggi, come si può vedere da una lettura degli statuti dei secoli XIV, XV e XVI.
Balza evidente, come segno di orgoglio municipale e di autonomia, quel rifiuto, nel 1377, di accogliere i soldati mercenari del comune di Firenze perché come fu motivato: " Firenze per Santa Croce non aveva mai speso “uno lupino” “né murato una pietra.”
Si potrebbe seguitare ancora con citazioni ed esempi remoti, ma per venire rapidamente ai nostri tempi, basta pensare allo spirito di iniziativa dei santacrocesi che seppero inventarsi un mestiere quando, con il crollo dell'industria dei navicelli, dovuta all'avvento della strada ferrata, i santacrocesi si fecero conciatori.
Si va per grandi linee, ma fu proprio il duro lavoro della concia che faceva ricercare momenti di svago e che predispose alle trasgressioni e a quel ribaltamento delle gerarchie sociali che è tipico dello spirito carnevalesco che si svilupperà nei primi decenni del Novecento.
Già nella seconda metà e alla fine dell' Ottocento era emerso uno spirito anarchico e si fondò una "Società dei ghiotti", espressione di una società lavoratrice ma godereccia, laica e anticlericale come recita una poesia di Nazzino Nazzi di quegli anni detta da una ragazza che cerca marito: " roseo il volto, snello il personale:/ alto, elegante, nobile, giocondo.../ Voglio però che non sia clericale.../".
E fu la musica prima di tutto. La musica che con La Banda, affondava le radici nella seconda metà dell'Ottocento, che con l'inaugurazione del Teatro Verdi nel 1902 diventò godimento di interi nuclei familiari. E fu la musica spensierata, prima e dopo la grande guerra, ad accendere la scintilla dell’evasione dalla piattezza del quotidiano. Fu poi la Società degli Spensierati che formò una nuova banda e pose le premesse perché nascesse e si sviluppasse lo spirito carnascialesco. E’ di quell’anno l’"Inno degli Spensierati" con parole di Nazzino Nazzi, musica di Gino Gufoni e arrangiamento di Pilade Riccioni: "Muore amici, il carnevale,/ Ci vogliamo divertir:/ Si va in tasca allo speziale, / festeggiando questo dì". S.Croce, in quegli anni, contava circa settemila abitanti con una quarantina di concerie e circa quattrocento operai. La concia rompeva le ossa, c’era l’agguato dell’infezione carbonchiosa, i luoghi di lavoro erano chiusi ed oscuri: putridi. Il Carnevale fu voglia di uscire all’aria aperta, nel cielo freddo e limpido di febbraio dove i colori si esaltano, le cose si staccano nitide dentro la luce che le investe.
Fu nel 1928 che vennero i primi carri e molte maschere, dalla volontà e dalla passione di due caratteristiche figure santacrocesi: Pilade di Pattona e Cesarino (costruttore di carri fin dal 1905), fu la “Nascita del carnevale” con l’orchestra di Adolfo Mechetti e poi “Pinocchio” di Pilade Riccioni.
Mentre, nel 1929, crollava Wall Street e si annunciava anche da noi una recessione selvaggia, un’epoca di inquietudini, di diffuso malessere, “Tu solo, carnevale,/ sai far sorridere, seppure triste il cuor” cantava la canzone musicata da Adolfo Mechetti su testo del Di Roma. Era un carnevale povero dove si fondevano i motivi e i materiali di una vita contadina con la nuova cultura industriale moderna.
Valerio Vallini
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