«Alcuni vedono delle vittime nelle mie figure. Io vedo in loro quelli che ce l’hanno fatta. Mi danno conforto. Una cicatrice non è necessariamente il segno di una tragedia, un campione di boxe può bene avere un occhio nero o un sopracciglio che sanguina» scrive Tesfaye Urgessa, l’artista nato ad Addis Abeba nel 1983, trasferitosi grazie a una borsa di studio a Stoccarda nel 2009 dove oggi insegna e lavora, apprezzato dalla critica e dal mercato.
Parole che sembrano alludere alla parabola di riscatto che Urgessa attribuisce ai suoi personaggi come, probabilmente, a se stesso. Le figure magnetiche che popolano le sue tele in solitudine o più spesso in composizioni di corpi aggrovigliati e mutili sono infatti a tutti gli effetti una proiezione personale che non ha alcun portato narrativo o sociale. «Se qualcuno si riconosce nelle mie figure così come io mi riconosco in loro, allora necessariamente si riconoscerà in me», scrive ancora Urgessa per spiegare il dialogo che i suoi dipinti attivano tra chi crea e chi guarda, mediato da un repertorio di volti, maschere, corpi, nonché da una raccolta di oggetti famigliari dispiegati secondo logiche arcane.
Terreno di scambio è la cultura visiva dell’arte del Novecento (e non solo) con la quale Urgessa si confronta in chiave di contaminazione e superamento, definendo una cifra stilistica del tutto originale: «Infatti per quanto Urgessa sia ben radicato nella tradizione della pittura figurativa e le sue opere siano ricche di elementi apparentemente iconici o simbolici, il suo modo di comunicare è fondamentalmente deittico» scrive Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi, curatore della mostra con Chiara Toti.
Le foto in catalogo, con Urgessa nello studio mentre disegna a terra o con gli stadi compositivi dei dipinti ricostruiti in sequenza, danno anche conto di un processo creativo che, rifuggendo ogni premeditazione, si affida totalmente al flusso spontaneo delle immagini generate dalla mente dell’artista e registrate in contemporanea su una pluralità di tele. «Rifuggendo – come nella vita – i limiti e le definizioni imposti a priori, Urgessa trasforma dunque l’arte in “viaggio avventuroso e pieno di incertezze”», aggiunge Chiara Toti.
Il percorso della mostra si estende tra le sei sale dell’Andito degli Angiolini, con un ordinamento cronologico che si dispiega a seguire Trapped in the Flesh, l’ultima grande tela dipinta da Urgessa scelta come focus di apertura. In una prevalenza di olii, non manca una scelta della produzione su carta con un rotolo di disegni e quattro monotipi che confermano la capacità dell’artista di spaziare tra tecniche e materiali.
L’Autoritratto, esposto a pendant con un intenso Ritratto d’uomo, è stato donato da Urgessa per la storica collezione delle Gallerie degli Uffizi: un ritratto non allo specchio o tratto da una fotografia, ma dipinto a memoria, passato anch’esso al vaglio della sua potente immaginazione.
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