Nello studio di Nicola Cioni, fotografo con ispirazione cinemoatografica

Nicola Cioni ha realizzato una sorta di esperimento concettuale, creando una serie di fotografie legate a titoli e a battute di film storici, dando vita ad uno strano viaggio nell’immaginario collettivo, che sta dietro alla mostra “False realtà”. Certo, oltre che fotografo, è stato per anni anche architetto (suo – tra gli altri – il progetto del Teatro di Quaranthana a Corazzano), sebbene ormai da tempo si faccia portare per le strade del mondo, in una ricerca incessante di scatti singolari. Da segnalare, tra i suoi progetti, la mostra dedicata alla “Gente dell’altro mondo”, con fotografie realizzate soprattutto in Oriente, la pubblicazione sull’esperienza italo-inglese della regista Firenza Guidi, la recente mostra al Palazzo delle Arti di Fucecchio.

Potremmo scrivere del progetto di Nicola Cioni come se fosse frutto di una visita concettuale al mondo del cinema: il fotografo compie il suo affascinante viaggio verso l’immaginario contemporaneo, vagamente rivolto a quello più arcaico, agli esordi della pellicola. Cioni si muove a partire da una serie di film di cui segna i fotogrammi, bloccandone il contenuto, considerando il loro valore iconico, come se rappresentassero un’immagine sacra, dalle posizioni praticamente prefissate, bloccate in una dimensione metastorica, che ne esalta il senso ma che non ne riduce la sostanza. Si pensi per fare un semplice esempio al Cristo in Croce o all’Annunciazione dell’Angelo a Maria, quante milioni di immagini per uno stesso gesto?
Non deve dunque stupirci un’operazione nella quale vengono scelte immagini provenienti da dodici film, considerati più o meno unanimemente interessanti, sebbene il risultato non sia di semplice riproduzione, con nomi come Giotto Leonardo Michelangelo Raffaello, partiti da un’iconografia prefissata - Annuciazione Ultima Cena Nascita di Gesù e via dicendo - che ci restituiscono secondo suggestioni inedite, creando sensazioni nuove nel fruitore dell’opera. Cioni non parte semplicemente dalla scena del film, e forse gioca in modo ben più evoluto, andando a cercarne il contenuto emotivo, il senso ultimo. Anche qui - come nell’icona sacra - si ferma su un blocco immanente, dove i gesti delle persone alludono semplicemente ad altri gesti, senza appunto riprodurli, creando una specie di bestiario umano (quasi mai si tratta di paesaggi), scoperto in varie parti del mondo, dall’India agli Stati Uniti.

Tutto questo a partire da un climax cinematografico, che è - crediamo - il fatto più notevole. Ognuno di questi fotogrammi sembra tratto da un film. Ne ha tutte le qualità e le banalità, perché mostra anche due tizi che leccano il gelato o due indiani di spalle che stanno osservando il Gange, il tutto con scelte stilistiche che ne esaltano lo spessore cinematografico.

Naturalmente potremmo anche discutere dell’operazione artistico-critica effettuata da Cioni: perché questo film e non un altro, perché questi anni e non quelli precedenti, perché un passato più o meno lontano e non tempi recenti, perché questa didascalia e perché rigidamente in originale, perché sottolineare, confondere o chiarire il perché di una scelta? Perché?
In effetti ci parrebbe ozioso, pretestuoso, un allungamento del brodo, del gioco al massacro dell’eventuale spettatore o lettore. C’è semmai ancora qualcosa da dire per quel che riguarda le scelte tecniche messe in campo dal fotografo. Intanto la riproduzione su plexiglas, che ottiene la trasparenza della pellicola, poi - appunto - una specie di ingrandimento del nastro perforato che costituisce la pellicola stessa.

Terza cosa la riproduzione delle immagini: ce ne sono ogni volta almeno tre, altre volte cinque, che sono forse uguali, forse con variazioni minime, come succede nei film veri. Chiaramente si fa uso di una macchina fotografica, non di una macchina da presa e poi da proiezione, anche perché siamo di fronte ad una mostra o semmai ad un testo a stampa, quello che si vede non è il movimento cinematografico, ma il fermo immagine di un fotogramma, o di qualcuno di più. C’è poi la didascalia, che è tratta dai film citati, come abbiamo detto, nella loro versione originale, come all’interno di un rigido schema da militanza cinefila.

Se poi tutto questo non fosse che un piccolo gioco perverso, andrebbe bene lo stesso, nel senso che l’operazione funziona comunque, offrendoci alcune possibilità critiche e mostrando il petto per altre eventuali notazioni, per adesioni più o meno motivate.

Anche stavolta il cinema può essere questo, raccontare momenti della nostra vita, esperienze ben più complesse di quanto possa fare un quadro o un libro e anche uno spettacolo teatrale, il cinema - naturalmente stiamo parlando del cinema in presenza, perché oggi, purtroppo, assistiamo spesso ad un’esperienza nuova, di home theatre, ma sarebbe meglio dire di home cinema - è spesso qualcosa che può prendere completamente lo spettatore, dandogli emozioni inimmaginabili, memorie indelebili, soprattutto quando venga evocata quella che non a caso si chiama “magia”.

Non si può dunque non ringraziare Nicola Cioni: la sua lezione di prestidigitazione ha dato i suoi frutti. In alcuni scritti lui fa giusto riferimento alla pittura di Hopper, anche il grande artista americano crea vuoti, sospensioni, con un suo percorso semmai inverso: dalla pittura a tantissimo cinema, che spesso lo cita, senza mai raggiungerlo.
Ma Cioni appunto, come Hopper, fa il mago, ed è bravo anche lui a far sparire il coniglio, lasciando il quadro vuoto di presenze, ma pieno di senso.

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