Il 25 agosto 1960, si aprirono gli unici Giochi estivi finora disputati sul territorio italiano: una straordinaria combinazione di condizioni li rese memorabili
La XVII Olimpiade dell'era moderna si aprì a Roma il 25 agosto 1960. A sessant'anni di distanza, l'eco di quella manifestazione, che apparve subito memorabile per più ragioni, si è fatalmente affievolita, perdendosi fra le nebbie di un passato ormai quasi remoto. L'inevitabile opacità del ricordo, tuttavia, non è tale da oscurare lo strabiliante intreccio di condizioni che resero la kermesse romana uno snodo fondamentale nella storia dell'olimpismo moderno e forse l'acme di un'epoca contrassegnata da una singolare miscela di ottimismo e concrete inquietudini, mentre più o meno confusamente si intravedeva l'alba di un nuovo mondo.
La capitale italiana si guadagnò l'investitura a spese di Losanna alla sessione del CIO del 15 giugno 1955, dopo un intenso lavorìo preparatorio orchestrato di comune accordo fra la Democrazia cristiana, il Vaticano e il CONI, grazie al fondamentale protagonismo del primo cittadino Salvatore Rebecchini, che incentrò la relazione programmatica sulla bontà degli impianti sportivi, sulle infrastrutture in costruzione (soprattutto la nuova stazione Termini, l'aeroporto di Fiumicino e l'autostrada del Sole) e sull'abitudine della città a gestire un cospicuo flusso di turisti in ingresso. Gli svizzeri pare che contassero principalmente su una parola a suo tempo spesa in loro favore da Pierre De Coubertin, ma redassero una proposta lacunosa e corredata di alcuni errori clamorosi: il Lago Lemano era stato infatti prescelto come scenario adatto alle gare di canottaggio perché sempre privo di venti, mentre lo stesso specchio d'acqua era da preferirsi per le competizioni di vela per i venti che costantemente vi spiravano. Alle 23.08, infine, il presidente del CIO Avery Brundage apparve alla stampa e proclamò che Losanna era stata superata per 35 voti a 24. Si erano rivelati decisivi i suffragi dei paesi nordamericani e di tutti quelli del blocco dell'Europa orientale, quasi che si vedesse in Roma - come riportò l'Unità - il ponte ideale fra l'Occidente filo-americano e l'Oriente comunista, mentre imperversava la Guerra fredda.
L'esordio della fiamma olimpica sul suolo italiano sarebbe in effetti avvenuto a Cortina d'Ampezzo, alla rassegna invernale del 1956, ma nel passato era già capitato che si accostassero i Cinque cerchi alla "Città eterna". Negli anni '30, con una complicata triangolazione diplomatica fra Berlino e Tokio, Benito Mussolini si adoperò perché i Giochi del 1940 (poi annullati per la Seconda guerra mondiale) fossero attribuiti al paese del Sol Levante, affinché Roma ottenesse quelli del 1944, che notoriamente non si disputarono ma che comunque erano stati assegnati a Londra.
Nel 1904, invece, dopo le semi-fallimentari edizioni di Parigi e Saint Louis, durante le quali l'abbinamento con l'Esposizione Universale aveva alimentato una gran confusione e tolto visibilità alle gare, il barone De Coubertin si convinse che solo una sede con impeccabili tradizioni di classicità poteva restituire lustro alla sua giovane creatura: il 22 giugno, il CIO assegnò l'onore dell'organizzazione per il 1908 all'Italia, ma fu subito chiaro che per gli italiani si trattava soprattutto di un onere assai gravoso. Il Governo e il sindaco di Roma fecero immediatamente sapere che non intendevano impegnarsi finanziariamente e nemmeno due visite di De Coubertin a re Vittorio Emanuele III e in Vaticano strapparono la necessaria promessa di un'adeguata copertura economica. Nel 1905, l'allora autorevole fisiologo Angelo Mosso mise la pietra tombale sul progetto olimpico romano: «Dai calcoli fatti - scrisse -, bisognerà chiedere al Parlamento almeno mezzo milione; e sarà denaro sciupato, perché non impareremo nulla; faremo una cattiva figura e saremo scoraggiati anche prima di cominciare, poiché sappiamo già che resteremo gli ultimi… Gli Italiani non sono ancora in grado di misurarsi cogli stranieri in una gara mondiale per l'educazione fisica». L'anno successivo un devastante terremoto colpì Calabria e Sicilia, già agitate da frequenti rivolte di popolo, mentre consistenti risorse pubbliche furono destinate alla realizzazione del tunnel del Sempione e dell'acquedotto pugliese. L'eruzione del Vesuvio dell'aprile 1906 offrì l'occasione per rinunciare ufficialmente ai Giochi, che furono spostati a Londra.
Sul finire degli anni '50, il clima era completamente diverso. Già incamminata su un promettente sentiero di crescita, l'Italia conobbe nel periodo 1958-1963 un vero e proprio "miracolo economico": il PIL crebbe del 6,3% annuo, la produzione industriale duplicò e le esportazioni s'impennarono, mentre spettacolari incrementi interessarono la produttività, i salari (ma non abbastanza da colmare il divario con le principali economie continentali), il numero degli addetti nel settore industriale e la quota italiana nel commercio internazionale. Nel 1959, la lira meritò dal Financial Times il riconoscimento di moneta più stabile del pianeta. L'epocale trasformazione sociale, che ovviamente includeva eventi storici come le oceaniche migrazioni dal Sud al Nord e dalle campagne alle città, la nascita delle metropoli, l'avvio della motorizzazione di massa, l'avvento della civiltà dei consumi, avvenne nel contesto di una love story globale: il design, il gusto, un presunto "buon vivere" italiani rimbalzavano per i quattro angoli del pianeta come simboli di fascino e modernità, e Roma in particolare era celebrata e frequentata da intellettuali, cineasti, artisti e nottambuli vari come il vero ombelico del mondo, eternato per i posteri nel film La dolce vita, che Federico Fellini mandò nelle sale nel fatidico 1960.
Anche nello sport, lo scenario non era più quello miserando d'inizio secolo. Gli italiani stavano diventando più alti e più prestanti, segno indiscutibile di una migliore qualità della vita e di una più equilibrata e ricca alimentazione. Nel medagliere conclusivo, gli azzurri si issarono fino a un inedito terzo posto e se la maggior parte degli allori furono raccolti nelle discipline (pugilato e ciclismo) cui la gioventù proletaria e sottoproletaria si era dedicata più o meno spontaneamente nelle strade, nelle campagne e negli oratori, il trionfo dello studente benestante Livio Berruti nei 200 metri e il lusinghiero quarto posto della squadra di basket, sport ancora misconosciuto come eloquentemente dimostrato dalle telecronache d'impianto quasi pedagogico della RAI, erano lì per testimoniare la prossima universalizzazione delle attività motorie.
La straordinaria combinazione dei multiformi cambiamenti in corso, nonché la forza dirompente dei nuovi movimenti politici, culturali ed economici, furono evidenti fin dalla cerimonia di apertura. Giulio Andreotti, presidente del Comitato organizzatore e Ministro della Difesa, occupò irritualmente la scena elogiando il contribuente italiano che aveva reso possibile le ingenti spese organizzative, promettendo ai dipendenti pubblici l'eredità degli alloggi edificati nel villaggio olimpico, magnificando la bellezza e la funzionalità degli impianti sportivi, e in ultimo irritando non poco Avery Brundage che, rinfoderata la minuta che aveva preparato per il suo discorso, giunto il suo turno, si limitò a cedere la parola al Capo dello Stato Giovanni Gronchi, il quale pronunciò la frase sacramentale di apertura dei Giochi. La parata delle rappresentative nazionali sull'anello ancora in terra battuta - a un certo punto disturbata dall'invasione di uno spettatore a torso nudo, capace di sfuggire alle forze dell'ordine e di far perdere le proprie tracce fra le gradinate da cui era sbucato - manifestò in modo plastico l'ecumenicità del movimento olimpico: erano presenti ben 86 paesi (molti appena usciti dai processi di de-colonizzazione), più di quelli che sedevano all'assemblea generale delle Nazioni Unite! La Cina nazionalista di Chiang Kai-shek, che gareggiava con il nome di Formosa per non irritare la Cina comunista di Mao Zedong, ritiratasi dal CIO un paio di anni prima, sfilò con il cartello "Noi protestiamo", che risultò quasi inosservato ma che rese esplicito il fatto che tutto doveva essere interpretato alla luce della contrapposizione Est-Ovest.
Solo una settimana prima dell'inizio delle Olimpiadi, si era aperto a Mosca il processo contro Gary Powers, il pilota dell'aereo-spia americano che era stato abbattuto sopra i cieli sovietici, vicenda che aveva esacerbato il contrasto fra Washington e Mosca e che sarebbe culminata nella potente accusa di Nikita Chruščëv al palazzo dell'ONU nel successivo mese di ottobre. In estate, Berlino Est aveva temporaneamente sigillato il confine con la parte della città controllata dagli occidentali, con ciò ponendo il primo mattone metaforico del muro che sarebbe stato eretto nell'agosto del 196. A Roma, al contrario, tedeschi orientali e tedeschi occidentali concorsero in una squadra unificata e chi vinse fra di loro ascoltò sul podio "L'inno alla gioia" di Beethoven, al posto dei rispettivi inni nazionali - in verità, la stampa dei due paesi non avrebbe mai mancato di sottolineare l'appartenenza geografica di ogni singolo atleta in gara.
Che le dinamiche della Guerra fredda incombessero sulla buona riuscita della manifestazione era chiaro al punto che gli ambasciatori italiani nel mondo rivolsero alle varie capitali l'auspicio che i Giochi rimanessero liberi da qualsivoglia operazione politica e di propaganda. Nel caso degli Stati Uniti, l'addetto stampa incaricato, con tutta la delicatezza, il tatto e la diplomazia del caso, si premurò di sottolineare che si trattava di una nota meramente formale, poiché non si temeva alcuna azione indebita da parte degli americani. Solo ventiquattr'ore prima, il Dipartimento di Stato aveva diramato una nota confidenziale ai membri statunitensi del CIO, affinché facessero pressione sui delegati degli altri paesi per ribaltare la decisione che aveva costretto la Cina nazionalista a rinunciare alla propria denominazione.
Non furono le sole ingerenze politiche. Il segretario generale del PCUS Chruščëv diffuse alla gioventù partecipante un messaggio grondante retorica e propaganda, cui il presidente americano Dwight Eisenhower rispose tardivamente con una nota che passò quasi sotto silenzio. Gli atleti americani furono forniti di opuscoli propagandistici scritti in russo e fu chiesto loro di distribuirli fra i colleghi sovietici, i quali non mancarono di presenziare in giro per l'Italia a diversi incontri organizzati dal PCI con militanti e simpatizzanti comunisti. La CIA non disdegnò di sguinzagliare i campioni a stelle e strisce sulle tracce degli omologhi russi, per favorirne la defezione a favore del campo occidentale: il lunghista armeno Igor Ter-Ovanesyan fu a lungo tentato, prima che l'occhiuta vigilanza delle spie del KGB e la goffa intromissione di un agente americano di nome "Mr. Wolf" lo dissuadessero in via definitiva.
Le Olimpiadi romane si collocarono in una speciale fase di transizione anche per altri motivi. La stringente e ipocrita regola del dilettantismo cominciò a scricchiolare sotto i colpi della crescente aspettativa per il miglioramento delle prestazioni, raggiungibile solo da atleti completamente dedicati. Comparvero i primi casi di sponsorizzazione, che riguardarono lo stesso re della velocità, il tedesco Armin Hary. Per la prima volta, partite, concorsi e combattimenti furono teletrasmessi in diretta e i diritti televisivi venduti: la RAI s'impegnò in un vasto sforzo operativo, che si tradusse in oltre cento ore di riprese dal vivo. Il ciclista danese Knud Enemark Jensen collassò al suolo durante la cronosquadre e morì in ospedale, gettando per la prima volta sui Giochi l'ombra lugubre del doping.
In ultimo, di non minore rilievo, furono i risultati sportivi di molti campioni e campionesse che consacrarono il proprio nome nel pantheon di Olimpia: delle loro prodezze, delle barriere fisiche e culturali che alcuni di loro frantumarono e dei riflessi che lasciarono nella storia dello sport, ci sarà modo di parlare in qualche prossimo post.
Paolo Bruschi