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Premio Boccaccio, Battistini: "Bisogna vedere coi propri occhi e raccontare"

Si avvicina il Premio Boccaccio a Certaldo. Proseguono le interviste a vincitori e vincitrici, tra cui la giornalista e inviata di guerra Stefania Battistini.

Raccontare il conflitto e il quotidiano: quali differenze o analogie riscontra tra ieri e oggi?

Dal 24 febbraio 2022 stiamo assistendo in diretta alla prima invasione su larga scala dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Certamente è un tipo di guerra che pensavamo di aver dimenticato e ci siamo trovati in questi 19 mesi a coprire l'aggressione russa nei confronti dell'Ucraina, assistendo a violazioni continue e sistematiche del diritto umanitario. Le scene di tortura che abbiamo visto sui soldati ucraini non ci aspettavamo più di vederle.

Qual è la sfida più grande o più temuta per chi va al fronte per raccontare la guerra e la sofferenza di interi popoli?

La sfida più grande è rimanere lucidi, perché chiaramente si devono guardare in faccia realtà molto dolorose, inumane direi. Allo stesso tempo è importante riuscire a raccogliere le prove e le testimonianze, confrontarle e raccontare soltanto quelle verità che si è riusciti a documentare. Parlo di verità sapendo che filosoficamente è un concetto impossibile da raggiungere, ma il dovere del giornalista è quello di avvicinarsi quanto più possibile ai fatti e alle prove, trovando una coerenza interna rispetto agli elementi raccolti senza innamorarsi di un'idea, continuando a verificare anche le cose di cui si è più convinti.

Cosa l'ha segnata di più?

Quello che maggiormente ferisce di questa aggressione sicuramente è il tornare. Noi siamo tornati 12 volte in 19 mesi, sperando sempre di incontrare le persone con cui abbiamo condiviso un pezzo di strada e di trovarle vive. Le troviamo ogni volta sempre più stanche, sempre più affaticate, gli anziani sempre più malati, con una difficoltà enorme a far arrivare le medicine e ad organizzare gli ospedali. Quello che colpisce di più è la resistenza e la forza del popolo ucraino, da una parte, e il senso di impotenza rispetto a una situazione che non vede vie d'uscita in questo momento.

Qual è per una inviata di guerra il vero nemico da combattere?

Credo che siano due i nemici. Uno è saper gestire la paura, che è un'emozione importantissima perché ci mette in allarme e ci fa capire quando c'è una situazione di pericolo, aiutandoci a fare delle scelte. L'altro nemico è la propaganda, perché mai come oggi con i social siamo soggetti a una tempesta di informazioni e, quando sei sul terreno, è fondamentale verificarle.

Pensa che il suo lavoro sia cambiato con la diffusione dei social network?

I social sono un'opportunità e uno strumento perché ti consentono di avere una visione più ampia di quello che sta accadendo nei luoghi, grazie anche alle geolocalizzazioni. Poi però va tutto verificato. Secondo me il giornalismo è rimasto un mestiere antico e, come diceva Enzo Biagi, l'unico modo per farlo è andare, vedere coi propri occhi e poi raccontare. L'abbiamo fatto, per esempio, con Bucha. Noi siamo potuti entrare due giorni dopo la ritirata dei russi e quella mattina giravano sui social network delle immagini di un villaggio vicino: Motyzhyn. C'erano delle foto terribili di una fossa comune con all'interno una donna e due uomini. Noi abbiamo cercato di capire quale fosse esattamente il luogo, siamo andati a verificare personalmente, abbiamo capito che si trattava della sindaca che era stata rapita dai russi nei primi giorni dell'invasione ed è stata ritrovata cadavere, con il viso pieno di lividi.

Negli ultimi teatri di guerra, il rischio per i giornalisti purtroppo è aumentato. Secondo lei, questo fattore può portare ad una limitazione della capacità di testimonianza dei giornalisti, della loro capacità di movimento?

Il rischio c'è ovviamente. Sono tantissimi i giornalisti morti durante l'aggressione russa nei confronti dell'Ucraina, molti dei quali sono proprio ucraini. Si dice che i russi abbiano preso deliberatamente i giornalisti come target, ma non è dimostrabile in questo momento. Quello che è certo però è che, per esempio, Arman Soldin sia stato ucciso mentre stava coprendo Bakhmut e aveva la scritta chiara "press" sul giubbotto antiproiettile e sul casco. Stessa cosa per Frédéric Leclerc-Imhoff, che è stato ucciso mentre si trovava su un autobus umanitario con un'evidente croce sopra. Quello che si respira qui è una fortissima determinazione da parte dei giornalisti che scelgono di coprire il fronte e un grande senso di responsabilità collettiva. I civili non smettono mai di ringraziarci per essere gli occhi che portano la loro verità nei nostri Paesi.

Cosa non può mancare nella valigia di un'inviata che parte per la guerra?

Ci sono strumenti essenziali per coprire il fronte. Ovviamente il giubbotto antiproiettile, l'elmetto e il kit medico di primo soccorso. Oltre a questo, dobbiamo portare con noi i cosiddetti tourniquet, lacci emostatici che si attaccano al giubbotto antiproiettile in caso si venga colpiti da schegge di missili o di razzi. Non puoi oltrepassare la linea del fronte e i checkpoint senza questi strumenti. Poi servono gli oggetti più specifici del lavoro, come tante power bank e il telefono satellitare.

Fonte: Ufficio Stampa

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