A Villa Pacchiani la mostra di Marta Roberti
Sabato 3 dicembre alle ore 17:00 presso il Centro Espositivo Villa Pacchiani di Santa Croce sull’Arno si inaugura la mostra di Marta Roberti Cose che non accaddero mai ma che sempre sono, un’iniziativa del Comune di Santa Croce sull'Arno, a cura di Ilaria Mariotti, realizzata in collaborazione con Crédit Agricole Italia.
La ricerca di Marta Roberti – che si manifesta in disegni e installazioni, video animazioni disegnate a mano, videoproiezioni e luce – si fonda su una visione del mondo che vede l’essere umano in un profondo e mistico legame con il mondo animale e vegetale in un costante rapporto vitale e generativo e in un processo continuo di metamorfosi delle specie.
Centrale per l’artista è l’esplorazione del rapporto tra tradizione occidentale e orientale attraverso il recupero di mitologie, la rilettura del concetto di “esotico” e lontano nel tempo, il rapporto uomo-animale. Marta Roberti costruisce così un immaginario stratificato, ibridato e complesso con l'obiettivo di rendere visibili possibili identità che non rientrano negli schemi culturali dominanti dove, al centro di tutto, è un’energia vitale che si garantisce attraverso una continua metamorfosi.
La mostra costituisce l’occasione di approfondire la ricerca di Marta Roberti che ha vinto la decima edizione del Premio Santa Croce grafica 2021.
La mostra parte dall’ultima serie di disegni realizzati dall’artista che, rimpaginando e riconfigurando opere di periodi diversi, costruisce una grande narrazione in dialogo con lo spazio. Ambigue creature metamorfiche, benevoli e terribili, echeggiano, nelle loro iconografie, miti generati da culture diverse, si connettono al mondo della natura evocando complesse relazioni tra mondo umano, vegetale e animale.
Una serie di divinità femminili generate da culture diverse manifesta un’attenzione al mito quale tentativo dell’uomo di dare forma alla realtà andando a costruire narrazioni sacrali sull’origine del mondo e delle cose e a dare risposta ai bisogni più profondi dell’essere umano in un dialogo costante tra sé e il mondo.
Marta Roberti ritrae se stessa in tante vesti diverse: durante il percorso espositivo l’artista si manifesta a noi nelle vesti della babilonese Ishtar, dea dell’amore,
dell’erotismo ma anche della guerra, della Dea dei serpenti generata dalla civiltà minoica riferibile ai rituali della fecondità, di Potnia theròn, Signora degli animali, dea mediterranea fin dall’Età del bronzo, selvaggia e primordiale, e della terribile dea indù Kali, ma anche di Europa che fu rapita da Zeus in veste di toro bianco il cui mito rappresenta la migrazione tra Oriente ed Occidente.
A ciascuna di queste divinità, mutuate da precedenti mitologie e che trasmigrano in altre figurate da culture diverse, vengono attribuite caratteristiche positive e distruttive insieme. Ciascuna, a seconda delle circostanze e delle mutazioni, soprintende a amore, erotismo e nascite, domina il mondo della natura più selvaggio.
Questi disegni, realizzati su assiemi di pregiata carta dello Yunnan, prodotto di un’antica tradizione cinese, sono di grandi dimensioni e con i loro bordi irregolari, quasi in crescita organica assecondano una drammaturgia compositiva complessa che varia a seconda delle narrazioni e dello spazio in cui le opere vengono esposte in relazione alle altre.
Le dee abitano il mondo insieme agli animali: cervi, gru, gatti, serpenti, cinte senesi, pavoncelli, corvi talvolta dominandoli, talaltra trasformandosi in essi in un dialogo costante e di reciproco scambio.
La seconda serie di disegni appartiene a un altro ciclo di opere, Se io mi Intuassi come tu ti inmii (2021) (Se potessi penetrarti, capirti, percepirti con la stessa empatia che ti fa penetrare in me...) tradotte poi, in un progetto ancora in corso, in arazzi dai ricamatori del Kashmir. Il titolo riprende un verso del Paradiso della Commedia dantesca (Paradiso IX,81) e la scelta delle scene mette a fuoco il tema della metamorfosi. Dice Marta Roberti: “ho cercato di rappresentare, usando il mio corpo e il mio viso femminile, i processi di metamorfosi tra umani e animale, tracciando nella Divina Commedia alcune figure e passaggi che esprimevano una condizione di mancanza di confine tra umano e animale.”
Nella terza serie di disegni la figura umana (sempre autoritratto dell’artista) si ispira all’osservazione delle posture di difesa che gli animali assumono in situazioni di pericolo. In questi disegni in particolare, realizzati a ridosso della pandemia e del lockdown, le squame che ricoprono il corpo del pangolino, unico mammifero con questa caratteristica, sono assunte a motivo decorativo per la realizzazione delle capigliature, a figurare una sorta di casco protettivo alludendo a una metamorfosi e fusione tra il corpo umano e l’animale ritenuto ospite intermedio e mezzo per il passaggio del virus da animale a uo-mo.
La quarta serie di disegni in mostra va a costruire, in una grande istallazione, una sorta di ambiente “al nero”. La serie di quinte che la compongono è costituita da disegni tracciati sulla carta carbone dalla quale la figura emerge graffiando via la grafite dalla carta copiativa. Questo paesaggio oscuro è abitato da esseri umani, piante e animali, creature che emergono come dagli abissi di una coscienza e vanno a intrecciare rami e corpi in un rapporto sempre dialettico.
Fonte: Ufficio Stampa