Pet therapy per curare l'Alzheimer, esperienza positiva ma i fondi erano finiti
Quando l’hanno portato a vivere in una Casa Protetta per Anziani, Alberto aveva 70 anni, la moglie Ada, un figlio, due nipoti e una testa che non rispondeva più travolta dall’Alzheimer. Alto e robusto, era stato un abile geometra, aveva amici, in gioventù giocava a calcio e amava viaggiare. Ma ormai, costretto in carrozzina, del tutto assente, incapace di comunicare, di gestirsi, perfino di coordinare l’uso delle mani, era diventato impossibile assisterlo in famiglia. Otto anni dopo, grazie alla pet therapy, è tornato alla vita.
Ecco la bella avventura che Maria Chiara Catalani, veterinaria perugina specialista di comportamento animale, racconterà venerdì 14 ottobre al convegno nazionale sui Centri Diurni Alzheimer, una 12° edizione ricca di eventi, come sempre organizzata dalla Facoltà di Geriatria dell’Università di Firenze con il sostegno della Fondazione Caript.
Nel parlerà nel quadro di una relazione su come si preparano gli animali da compagnia oppure destinati alla pet therapy. Un intervento per conto della Sisca, la Società Italiana di Scienze del Comportamento Animale, nel cui nome la dottoressa Catalani ha coordinato la ricerca con Alberto. Sisca, per chi non lo sapesse, studia e promuove i rapporti uomo-animale nella provata convinzione che favorisca il benessere di entrambi.
Due anni. Tanto è durata la pet therapy su Alberto, con una seduta a settimana per un totale di venti. Protagonisti tre magnifici cani addestrati a Bologna in tandem con i loro operatori alla Scuola di Interazione Uomo Animale (Siua): Tomas con Pebeta, una molossoide nera focata di taglia grande; Monica con il labrador Brenda; Valentina con Kora, una meticcia nera. Gli anni rispettivi: 7, 5 e 3.
“Per le sedute”, ricorda Catalani, “abbiamo usato un ambiente attrezzato della Casa Protetta con più pazienti in contemporanea, sempre però in rapporto personalizzato uno a uno: a ogni paziente un operatore a rotazione. Durata un’ora circa, attività variabili. Quando abbiamo cominciato Alberto aveva già 76 anni. Arrivava in carrozzella spinta dalla moglie, ma con lui si poteva fare molto poco: non aveva autonomia, né capacità di interagire”.
E aggiunge: empiricamente si sa da sempre che le potenzialità del rapporto uomo-animale sono tante e uniche. E sono proprio i tre attori a renderla speciale: la persona che per vari motivi soffre, e l’operatore con il suo animale che, essendo diverso da noi, apre porte altrimenti sbarrate. Oramai anche la comunità scientifica riconosce le grandissime potenzialità e il valore di questi interventi assistiti.
“Grazie a Pebeta nella mente di Alberto si è aperto uno spiraglio. Se all’inizio non controllava le mani neppure per accarezzare il cane e meno che mai per offrirgli uno snack o lanciargli una pallina, alla fine ce l’ha fatta con visibile soddisfazione sua e di noi operatori. Non solo. Per mesi non aveva risposto alle nostre sollecitazioni. Poi, d’improvviso, ha parlato: ‘Alberto, vuoi continuare le attività con Pebeta?’, gli ha chiesto Tomas. ‘Sì’, ha risposto. Era proprio la sua voce. Alla sedicesima seduta anche nel muro del silenzio si era aperta una breccia”.
Poi? Poi niente, si rammarica Catalani: “Nelle ultime seduto abbiamo visto altri progressi. Purtroppo il finanziamento non è stato rinnovato e l’esperienza si è conclusa. E’ andata bene, la pet therapy si è dimostrata ancora una volta efficace. Alberto è riemerso dalle nebbie dell’Alzheimer. Ma continuando, chissà dove si poteva arrivare”.
Fonte: Ufficio Stampa