Premio Boccaccio a Lorenzo Cremonesi: "Pregiudizi nemico da combattere"
Lorenzo Cremonesi è uno dei vincitori dell’edizione 2022 del Premio Letterario Boccaccio. Inviato di guerra da molti anni per il Corriere della Sera, attualmente si trova in Ucraina dove da cinque mesi sta raccontando il conflitto in corso. E’ tornato in Italia soltanto per brevi pause per presentare il suo libro “Guerra Infinita. Quarant’anni di conflitti rimossi dal Medio Oriente all’Ucraina”, e sabato 10 settembre sarà a Certaldo per ricevere il Premio sezione Giornalismo.
Dalle zone del conflitto ci ha rilasciato un’interessante intervista su cosa significa essere reporter oggi, come è cambiato il giornalismo con l’avvento dei social e delle nuove tecnologie, svelandoci anche i suoi progetti futuri.
Cremonesi e il Boccaccio: raccontare la Storia, il conflitto e il quotidiano, quali differenze o analogie tra ieri e oggi?
“Nel lavoro del reporter c’è stato un profondo cambiamento negli ultimi venti anni. Mi riferisco principalmente ai nuovi sistemi e le nuove tecnologie per inviare pezzi e servizi, alla competizione con i social, al fatto di essere sempre connessi. Tutto ciò permette e richiede di raccontare quello che accade in tempo reale. E’ dunque cambiata la velocità della comunicazione – dal mio giornale (Corriere della Sera) mi vengono continuamente richiesti pezzi audio visivi - ma l’abc del giornalismo non è mutata, anzi. Le testate giornaliste che non hanno perso lettori, o addirittura hanno acquistato nuovi abbonati, sono proprio quelle che hanno compreso che bisognava tornare al giornalismo classico, quello degli inviati sul campo che hanno le proprie fonti, che vanno controcorrente, che cercano storie diverse da quelle che tutti gli altri hanno perché battute dalle agenzie o rilanciate dai portavoce. Lo dico sempre: diffidare dai portavoce, soprattutto nelle zone di guerra dove spesso è la propaganda a farla da padrone. Il reporter è quello che cerca oltre”.
Quali sono i luoghi o gli incontri che l’hanno segnata di più?
"Faccio l’inviato da oltre quanta anni. Ho iniziato nella provincia di Milano, negli anni Settanta. Sono tanti i conflitti che ho seguito e sicuramente i primissimi che ho raccontato mi hanno segnato molto: Israele e Libano, la prima Intifada palestinese e poi la guerra in Iraq. Quest’ultima, in particolare, mi ha segnato di più come giornalista e come uomo. Ho visto persone accoltellate per strada, bombe che mi cadevano vicino, hanno provato anche a prendermi e a Gaza fui davvero rapito brevemente. Nonostante tutto, non ho mai pensato di smettere di fare quello che faccio. Quando entro in una grande guerra voglio sempre vedere come andrà a finire. Sono in Ucraina da cinque mesi e saltuariamente rientro a casa per un breve periodo per presentare il mio libro (Guerra Infinita. Quarant’anni di conflitti rimossi dal Medio Oriente all’Ucraina). Lo farò con molto piacere anche per il Premio Letterario Boccaccio, ma poi non vedo l’ora di tornare sul campo”.
Qual è per un reporter il vero nemico da combattere o quali sono le paure con cui imparare a convivere?
“Il nemico da combattere sono i propri pregiudizi. Tutti noi, specialmente quando ci avviciniamo ai grandi conflitti, abbiamo dei preconcetti: è normale, derivano dalle nostre esperienze passate, da quello che abbiamo letto e vissuto. La vera sfida è riuscire a cambiare idea quando ciò che osserviamo, registriamo e viviamo è diverso da quello che credevano fosse. Noi siamo gli storici del presente. Mi piace chi cambia idea sulla base di ciò che vede. Io stesso l’ho fatto: nel 2003 pensano che l’attacco americano in Iraq fosse giusto, poi ho detto e scritto che è stato un fallimento totale. Per quanto riguarda le paure, credo che un po’ di sana paura faccia bene. Il reporter deve averla se va in posti che non conosce. Deve fidarsi dei colleghi locali e cercare, anche nei posti e conflitti peggiori, quelle nicchie di normalità, che nonostante tutto continuano a esserci”.
Alla luce degli attuali scenari storico-politici che la sua professione le ha consentito di esplorare che idea si è fatta del futuro possibile per l’umanità?
“Non sono un catastrofista. A me quello che spaventa di più è come stiamo riducendo l’ambiente. La mia grande preoccupazione è l’inquinamento legato alla sovrappopolazione. La grande sfida è preservare la nostra Terra, riuscire a instaurare uno standard di vita senza distruggere l’ambiente. C’è poi un altro problema, ed è tema del mio libro: noi siamo i figli, molto viziati, di uno stato di democrazia in cui siamo vissuti e cresciuti. Non siamo ancora riusciti a capire che questo stato di grazia è fragile e può essere cambiato. Purtroppo non siamo più pronti a soffrire né tantomeno a morire per difendere le nostre libertà”.
Qual è la sfida più grande o più temuta per chi va al fronte per raccontare la guerra, il terrorismo, l’emarginazione, la sofferenza di interi popoli?
“La sofferenza umana, purtroppo, è una delle tante cose che in guerra si danno per scontate. Ho visto scene strazianti, ma bisogna riuscire a superarle. E’ il mestiere di reporter che te lo impone. Ne ricordo in particolare una dall’impatto fortissimo. Era il 25 marzo 2003, ero fuori Bagdad, gli americani ci portarono a vedere la linea del fronte. C’era una donna in un piccolo ospedale da campo ferita che stava dando, tramite una trasfusione, il suo sangue ai suoi due bambini, uno di circa 5 anni, l’altro di pochi mesi. Quando sono arrivato erano tutti vivi, dopo venti minuti i figli erano morti, attaccati ancora a lei. Una guerra, inoltre, oltre che un grosso tributo di vite umane, porta con sé un enorme spreco: bellezza distrutta e buttata via, penso a monumenti, paesaggi, città rase al suolo”.
Progetti nel cassetto?
“Ne ho uno che mi piacerebbe tanto realizzare: vorrei raccontare la natura in pericolo. Stare in un posto, vivere una situazione. Ad esempio, dormire per un periodo in cima al Monte Bianco per vedere cosa accade alla natura con il passaggio e la frequentazione di persone. Oppure fare un giro in barca a vela dotata anche di motore elettrico alimentato a energia solare e raccontare come sia possibile riuscire a convivere con l’ambiente senza violentarlo e distruggerlo”.
Fonte: Ufficio stampa