Addio al centenario Ferdinando Ciampi: perse il padre fucilato dai nazisti a Empoli
È stato testimone della strage di piazza Ferrucci a Empoli (oggi piazza XIV Luglio) nei giorni della Resistenza, dove perse il padre e gli zii fucilati, ha lavorato a Empoli come vigile e proprio lo scorso anno aveva compiuto un secolo di vita. È morto purtroppo nelle scorse ore Ferdinando Ciampi, ne dà notizia la famiglia. Lo ricordano con affetto la moglie Graziella, le figlie Daniela e Dunia, i generi, i nipoti e i bisnipoti. Da sempre residente nel quartiere di Santa Maria, nella chiesa di Santa Maria a Ripa si terranno i funerali domani, giovedì 17 febbraio.
Riportiamo qui l'intervista del 2017, datata 24 luglio, a cura del direttore Elia Billero nella quale Ferdinando Ciampi raccontò la sua vicenda di vita.
Non deve sembrare retorica stantia, soprattutto in questi giorni, l'appello alla memoria e il ricordo di chi fu suo malgrado testimone degli orrori della guerra e del fascismo. Non è così che è nata l'intervista a Ferdinando Ciampi, un 'giovanotto' di 96 anni che vive con la moglie nel quartiere empolese di Santa Maria. Siamo partiti per parlare con lui del suo passato da vigile urbano, dei suoi ricordi di un'Empoli che non c'è più anche se quel quartiere ne conserva ancora una buona parte. Chiacchierando siamo andati a finire negli anni della gioventù, in quell'imbuto dove sono state canalizzate le passioni di un'intera generazione, dove chi è sopravvissuto si è trovato il difficile compito di raccontare le sue gesta e quelle di chi non ce l'ha fatta. Vogliamo raccontare quelle di Ferdinando oggi, 24 luglio, perché 73 anni fa proprio lui perse il padre e tre zii nella strage di quella che allora si chiamava piazza Ferrucci. Furono 29 le vittime della fucilazione.
"Non ho mai voluto fare la guerra, fino al '41 sono riuscito a essere esentato. Un ufficiale a Cerreto Guidi faceva i verbali e mi fingevo malato di mente, così saltavo sempre la leva. Poi chiesero di presentarmi a Pistoia. Anche lì feci di tre mesi in tre mesi la convalescenza in ospedale. Finché in una visita nel '42 mi ritennero idoneo e mi trasferirono a Sanremo".
Gli anni dell'invasione nazista dovevano ancora venire. "Non mi mandarono a combattere, ero in borghese. Ma nell'aprile del '42 c'era il rischio che potessi andare a fare la campagna di Russia. Io in Russia non ci volevo andare per niente e finsi un attacco di epilessia. Mi ricoverarono al 'San Martino' di Genova".
Veniamo ai momenti cruciali: l'8 settembre '43, l'armistizio. "In quel momento ero all'ospedale Sangallo di Firenze. Ci fu un grande sconvolgimento e io riuscii a scappare e a tornarmene a casa a piedi". Ferdinando raggiunse la sua famiglia nel casolare di Pratovecchio, dove c'erano decine e decine di sfollati. Dovette rimanere nascosto nei campi per evitare i rastrellamenti legati alla guerra civile.
I racconti di quel 23 luglio 1944 sono stati scritti a mano e battuti a macchina dal nipote di Ferdinando, ma la sua testimonianza orale ripercorre fedelmente i momenti di quella tragedia.
"Ricordo quel giorno, i carri armati tedeschi si battevano contro quelli americani nei pressi di Calenzano, a San Miniato (dove un'altra strage avvenne il 22 luglio, quella delle vittime del Duomo, NdR). Io ero nascosto nei campi e sentii alcuni spari. Alcuni vicini di casa spararono a una camionetta tedesca, uccidendo alcuni soldati. L'autista ferito riuscì a raccontare tutto al comando nella fattoria del Terrafino. Un soldato austriaco era invece in casa nostra, come sfollato. Riunì le donne e disse che la mia famiglia era estranera all'agguato. Poi però nel pomeriggio del 24 i nazisti circondarono il casolare e puntarono i mitra contro i prigionieri".
Tra di loro c'era il padre di Ferdinando, Giuseppe, e gli zii Pietro, Dario e Virgilio. "Ci furono dei bombardamenti - continua Ferdinando - e i tedeschi fermarono le operazioni per inserire mine e far saltare in aria il casolare. Presero dei prigionieri, li radunarono nella piazza della frutta (oggi tristemente nota come piazza 24 Luglio) e li fucilarono. Furono disposti in fila di fronte al portone dove ai tempi c'era la caserma dei carabinieri e davanti a loro sul marciapiede opposto fu piazzata nuovamente la mitraglia. In pochi tremendi, orribili attimi furono tutti barbaramente assassinati. Gli Unni li avevano uccisi, Attila aveva dato loro la morte. Con irreale mestizia, in un silenzio raccapricciante, il giorno seguente, le donne, compresa mia madre, andarono a raccogliere quei poveri corpi straziati dalle raffiche".