Giorno del ricordo, Empoli non dimentica Alfio Mandich
Giorno del ricordo, Empoli non dimentica Alfio Mandich
“Mio padre era un uomo grintoso, che non si tirava mai indietro. Che si trattasse di mettere la gamba in un contrasto o rimboccarsi le maniche per rimettere in piedi la sua vita dopo aver lasciato la sua Fiume”.
Un uomo forte, che non si arrendeva. Questo era Alfio Mandich, arcigno difensore ex Empoli, dal 1954 al 1956, squadra in cui chiuse la carriera. All'Empoli, dove mise insieme una trentina di presenze, arrivò appunto nella fase finale della sua vita calcistica, dopo un peregrinare in varie città e altrettante squadre: Merano, Pro Patria (in serie A, il mister era un certo Giuseppe Meazza), Varese, Toma Maglie, di nuovo Pro Patria e infine i toscani. Non era certo un problema spostarsi, per Mandich; non per lui che il più importante viaggio della sua vita lo fece da esule, lasciando nel ‘48, a nemmeno 20 anni, la città natale: Fiume.
Era un duro, Alfio Mandich, classe 1928 e scomparso nel 2006, due anni dopo l'istituzione del Giorno del ricordo. La celebrazione, istituita appunto nel 2004, è volta a conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.
"Mio padre – racconta il figlio Igor – decise di lasciare la Jugoslavia sia per motivi economici, perché aveva capito che in Italia la vita sarebbe stata più facile, sia per motivi ideologici, essendosi trovato sotto gli occhi la faccia più terribile del comunismo titino. Il 19 agosto del '48 raggiunse il Centro di Raccolta Profughi di Laterina, nell’Aretino, dopo un viaggio allucinante su un treno che ricordava più un carro bestiame. Gli si strinse il cuore vedere mamme e bimbi ammassati uno sull’altro, trattati quasi come animali. Lasciò Fiume, una città portuale relativamente ricca per ritrovarsi in un campo profughi in campagna e circondato da filo spinato, privo di porte, finestre e riscaldamento; nella valigia di cartone che aveva con sé solo qualche vestito, le uniche scarpe le aveva ai piedi; orfano di padre, la madre era stata destinata a un altro Crp a Mantova, mentre la sorella aveva deciso di rimanere in Jugoslavia. Era poco più di un ragazzo, solo, e con una valigia piena di niente. Fu un momento tragico, per un momento perse la speranza. Poi, il suo carattere forte, di uno che non mollava mai, riprese vigore: insieme agli altri profughi si impegnò a riparare ciò che poteva, rendendo le baracche più accoglienti in primis per bambini e anziani. Anche se rimase pochi mesi a Laterina strinse amicizie indissolubili".
Alfio, infatti, godeva di un privilegio che la guerra e l’esodo non gli avevano tolto: sapeva giocare a calcio. Militava già in compagini fiumane prima di partire e venne notato dall’allenatore Olindo Serdoz, che lo portò a Merano in Serie D. Anche lì fu dura perché, come raccontò al figlio, si ritrovò in Alto Adige "con una giacchetta, una camicia, un paio di pantaloni e un paio di scarpe. Tuttavia, era contento: giocava a calcio, lo pagavano bene (circa tre volte lo stipendio di un operaio di allora) e facevo quello che amava".
A differenza di molti esuli, continua Igor, Alfio non ha vissuto la partenza da Fiume come uno strappo, anche perché, proprio per il suo carattere, non l’ha mai considerata una patria perduta. "Quando ha potuto e ogni volta che ne aveva la possibilità ci tornava sempre, con mia madre (anche lei fiumana), mia sorella e me. Conosceva ancora molta gente, dal bar al porto, e tutti lo ricordavano con affetto e senza nessuna invidia, come un uomo di grande generosità. Anzi, lui aveva amici in tantissimi posti; mi ricordo che quando mi portava con lui in qualche viaggio in auto, arrivati in città bastava che in un bar aprisse l’elenco del telefono e trovava qualcuno disposto ad accoglierci".
Ovviamente Mandich aveva molto a cuore la tragedia dell’esodo ed è stato un membro impegnato delle associazioni degli esuli istriani. Inoltre, ha ricoperto la carica di consigliere del Libero Comune di Fiume in Esilio e ha scritto su La voce di Fiume, il giornale degli esuli fiumani.
Prima di accasarsi a Genova, dunque, Alfio Mandich girò la penisola da nord a sud, e con la Toscana ha mantenuto un rapporto speciale. "Gli era rimasta nel cuore e qui aveva molti amici, oltre che parenti da parte di mia madre a Livorno. Tornò in qualche occasione a Laterina e da piccolo mi portò a Firenze, Arezzo, Siena, San Gimignano e Volterra".
Per quanto riguarda Empoli, il ricordo è dolceamaro: "Strinse anche qui molte amicizie, in particolare con Lauro Toneatto, friulano compagno di reparto, che poi andò ad allenare la Sampdoria nel campionato 79-90. Noi vivevamo appunto a Genova e i miei amici erano strabiliati dal fatto che mio padre fosse amico dell’allenatore doriano e frequentasse anche il campo d’allenamento qualche volta. Gli ultimi anni a Empoli, dal punto di vista sportivo, non furono semplici perché la squadra, in serie C, non navigava in acque tranquille. Il presidente, infatti, decise di vendere in blocco otto o nove giocatori al Siena, tra cui anche mio padre. Addirittura, l’allora presidente del Siena, Danilo Nannini (padre della cantante Gianna e dell’ex pilota di Formula 1, Alessandro, NdR) ospitò lui e gli altri giocatori a vedere un’edizione del palio dalla balconata. Tuttavia, il trasferimento non si concretizzò. Mio padre voleva raggiungere mia madre a Genova e spinse per trovare un accordo con i rossoblù, mentre il presidente non voleva sentire ragioni: o al Siena o con il calcio aveva chiuso. E mio padre smise. ‘Io perdo la carriera, ma tu perdi i soldi’, gli disse. Era fatto così".
In realtà, il più grande insegnamento che Alfio ha tramandato al figlio Igor è un invito alla tolleranza e alla resilienza: "Il suo esempio, oltre a mostrarmi quanto sia importante non arrendersi alle difficoltà, mi ha spinto a non giudicare, a riflettere e misurare le parole. Un insegnamento di cui tutti dovremmo far tesoro nel Giorno del Ricordo, affinché non si limiti solo alla malinconia dell’abbandono e al dolore della tragedia, ma costituisca un ponte tra le persone per raggiungere un futuro migliore. Mio padre, infatti, nonostante quello che ha passato e le storie che ha sentito non ha mai ceduto al rancore. E ne avrebbe avute, di ragioni: si sentiva italiano ma la sua patria aveva usato la sua terra e le persone che la abitavano come pagamento dei danni di guerra. In più, nel momento di massima difficoltà e senza una dimora, lo aveva ‘accolto’ in un campo profughi ridotto a baraccopoli. L’amarezza fu tanta, ma la forza di volontà prevalse".
Giovanni Gaeta