Genitorialità, diritti, sessualità. In via di discussione approcci diversi alla detenzione femminile, in un'istituzione pensata per gli uomini
"La riflessione sulla condizione delle donne detenute, inserite in un’istituzione pensata per gli uomini e assoluta minoranza nel mondo carcerario, ha messo in luce i pregiudizi sul genere, che nel carcere hanno una maggiore persistenza rispetto al mondo esterno, sebbene anche lì sopravvivano – ha sottolineato il Garante per i diritti dei detenuti della Toscana Giuseppe Fanfani presentando la ricerca della Fondazione Michelucci durante il convegno ‘La dimensione affettiva delle persone in carcere’ - Si sono discusse proposte di approcci differenti alla detenzione femminile, che restano aperte come possibili alternative. La ricerca è un passo avanti, uno strumento che può servire a progredire verso un cambiamento reale”.
La segregazione binaria obbligatoria per sesso di appartenenza si scontra con una realtà che deve necessariamente tenere conto dei diritti e delle necessità di una popolazione variegata che non corrisponde affatto a tale suddivisione. Un esempio su tutti, la gestione delle sezioni per detenute e detenuti transgender come il cosiddetto Reparto D (o “reparto trans”) della Casa Circondariale Firenze Sollicciano rappresenta a oggi l’unica esperienza nazionale in cui le persone transgender (unicamente M to F) sono detenute all’interno di un reparto femminile, andando contro il paradigma prevalente che prevede l’assegnazione in sezioni protette all’interno del reparto corrispondente al sesso biologico.
Nel ricercare un modello alternativo per la detenzione femminile che contrastasse l’imposizione del carcere maschile alle donne, tradizionalmente è stato proposto un modello femminile ben distinto rispetto al carcere maschile, ma quanto mai oppressivo e pervasivo, perché ricalcato sull’esperienza dei riformatori – di fatto, istituzioni volte a riprodurre e confermare approcci rieducativi basati su un’immagine stereotipica della donna deviante.
Un altro modello che si dovrebbe portare avanti è invece il carcere delle donne che vale anche per gli uomini: recupera degli aspetti della differenza femminile cercando di superare la sussidiarietà della detenzione delle donne, presentandosi come un modello più comprensivo dei diversi soggetti e quindi capace di farsi portatore di diritti a prescindere dall’appartenenza di genere.
Il tema della genitorialità in carcere è uno dei punti chiave per ridiscutere le percezioni condivise sulla differenza maschile/femminile. Tanto i dati esperienziali di chi frequenta il carcere per lavoro o volontariato, quanto le ricerche condotte nel contesto del penitenziario confermano la centralità del tema della genitorialità per le donne detenute, che nel successo o fallimento della propria capacità genitoriale riescono a trovare un punto di forza o un motivo di forte sofferenza. Ciò nonostante, si ritiene necessario garantire la continuità del rapporto tra genitori e figli per tutta la popolazione detenuta, non solo per le detenute donne.
L’essere e (soprattutto) raccontarsi madre diviene un’arma dalla lama affilata e doppia. Da una parte, è possibile intravederne il ruolo sociale narrato come necessario, come elemento di trattamento; dimostrare di essere una buona madre ne è parte costitutiva. I figli e le figlie sono un’àncora necessaria per riuscire a reggere durante la carcerazione, ma allo stesso tempo diventano motivo di profonda sofferenza aggiuntiva a causa del ruolo mancato e della lontananza affettiva.
Altro tema estremamente significativo è la presenza di relazioni omosessuali, letti spesso in un’ottica patologizzante da parte dell’Amministrazione penitenziaria, quasi a decretare il carcere responsabile di disturbi del comportamento sessuale. Tuttavia, l’omosessualità femminile è maggiormente accettata rispetto a quella maschile. Viene infatti considerata meno problematica perché le donne sembrano farla ricadere all’interno delle relazioni affettive, con un preciso richiamo a un ambiente di tipo familiare. Ancora una volta, viene censurato il corpo sessuato e si focalizza l’attenzione sulla relazione: le donne, si dice, si vogliono bene in modo gentile e non creano problemi.
Il problema della sessualità in carcere viene raccontato come un problema di sicurezza: gli uomini vengono percepiti vivere la sessualità in maniera violenta e aggressiva, mentre le donne sembrano esprimersi senza traumi e problemi. Tuttavia, se l’Amministrazione penitenziaria italiana pare assumere un approccio naturalistico nell’analisi dell’omosessualità femminile in carcere già agli inizi degli anni Novanta si è cercato di confutare tale posizionamento introducendo il concetto di gender fluidity, negando l’esistenza di ruoli prestabiliti.
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Fonte: Consiglio regionale della Toscana - Ufficio stampa
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