Piero Vezzi e i personaggi di Ponte a Egola in un'antica conceria
Scriviamo subito del luogo: la “terrazza” di un’antica conceria, spiegando come questo ambiente sia coperto a capriate, con grandi finestre su tutti i lati: lì venivano messe ad asciugare le pelli nell’ultima parte della conciatura ed è tipico di questi spazi il soffitto pieno di ganci, ai quali si appendevano le carcasse delle bestie.
Un luogo ricco di memoria insomma, giustissimo per “appendere” le opere a cui Piero Vezzi ha dedicato molti anni della sua vita, ritirandole appunto fuori dalla sua, di memoria. Opere con le storie, o meglio con i personaggi cui ha voluto dedicare il suo impegno. Non è un caso se, in molti quotidiani italiani e stranieri (compreso “The Indipendent”), si è parlato di una Spoon River disegnata, per questo straordinario progetto grafico di Vezzi, realizzato a Ponte a Egola, il suo paese d’origine.
Ha infatti lavorato usando lapis del tipo 2B, i cui mozziconi aprono - almeno in foto - il bellissimo catalogo che racconta l’impresa (edito, come altri di questa qualità, da Bandecchi & Vivaldi di Pontedera, nel 2000), a partire dagli scritti di alcuni critici di valore, come Dino Carlesi e Marco Fagioli, ma anche di amici come i pittori Romano Masoni e Giorgio Giolli, e altre figure della cultura: Alberto Pozzolini o il germanista Marianello Marianelli, originario anche lui di Ponte a Egola.
Tra l’altro per qualche anno il lavoro di Vezzi è stato esposto nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù, proprio in questo luogo, di cui in genere si parla solo per una eccezionale concia al vegetale.
Il sacerdote - allora don Giampiero Taddei (c’è anche un suo scritto, nel libro catalogo uscito per documentare l’opera) -, aveva ben capito l’operazione, e faceva entrare i ritratti in chiesa dalla porta principale, ospitandoli addirittura nell’abside. In effetti alcuni erano di uomini più o meno legati alla fede, altri invece assai distanti, addirittura con qualche “mangiapreti”, e in bella vista anche il ritratto dello “scemo del villaggio”, che non sfigurava affatto, accanto a tutti gli altri: industriali, ma anche operai, conciatori, baristi, figure importanti per aver pescato un enorme pesce o per altri gesti neanche troppo eroici, come quello di suonare il violino. Tra tutti un solo sacerdote, don Niccolò Bagatti e una donna, Marietta Matteoli, la catechista del paese.
Vezzi lo conosco da sempre, ne ho più volte ammirato e anche favorito la pittura: ricordo ancora una delle sue pochissime mostre, da me organizzata nella “grotta santa”, l’attuale Aula Pacis di San Miniato.
Certo il suo lavoro, almeno in senso artistico, alla fine non è stato moltissimo, anche se l’impegno profuso, soprattutto a livello grafico, è stato importante, addirittura totalizzante. Almeno quando ha trovato - come per “I volti che io conosco”, questo il titolo del progetto sui ritratti dei personaggi di Ponte a Egola - la sua ispirazione, lo stimolo, e alla fine anche un po’ di sana “follia”.
In questo senso si potrebbe ricordare, e si va molto indietro nel tempo, alla seconda metà degli anni 60, quando Vezzi aveva poco più di diciott’anni (è del 1948), l’impegno per gli affreschi dell’Oratorio di San Rocco a San Miniato, ma anche la mostra di Arte Sacra di un paio di anni dopo. Iniziative cioè, che furono guidate da una figura almeno mitica dell’arte sanminiatese, cioè Dilvo Lotti, che si attorniò di una serie di giovani e giovanissimi artisti cresciuti nei dintorni.
Di quel periodo si può ancora ammirare almeno una parte degli affreschi presenti in San Rocco e anche alcuni bozzetti preparatori. Vezzi lavorò tra l’altro ad una magnifica Via Crucis, almeno in parte conservata nella sua casa di via Aldo Moro, a San Miniato. Dimostrando intanto una notevole capacità compositiva, che lo rende capace di lavorare anche in spazi molto grandi, ma soprattutto una notevole possibilità tecnica, nell’uso della sanguigna, dei pastelli colorati o della grafite.
Non vogliamo scomodare i grandi nomi, ma in certi chiaroscuri Vezzi ci fa pensare ad alcuni disegnatori del nostro Quattrocento, le cui splendide opere servono tra l’altro a documentare quelle epoche storiche. Nel senso che facevano di più e meglio di quanto possa fare un documento fotografico. In questi artisti c’è infatti l’estro, la capacità interpretativa, la comprensione del mistero che sta dietro al soggetto rappresentato, soprattutto quando questo è una figura umana, ma anche quando si tratta di un semplice paesaggio.
Qualche anno fa Vezzi diede vita ad una magnifica mostra tenuta a Brunico, in provincia di Bolzano, organizzata appunto da quel Comune della Val Pusteria, nel luogo cioè che per l’artista è una specie di seconda patria. Certo non è un caso se uno degli spettatori più entusiasti, tra le parecchie migliaia (oltre cinque mila) che visitarono la mostra, fu proprio Vittorio Sgarbi, noto per tante cose, compresa la sensibilità e il gusto estetico.
Nel pezzo introduttivo della cartella che accompagnava la mostra, Alessandra Scappini scrive: “Inserti, frammenti, squarci di un paesaggio naturale, pulsazioni della natura del luogo, tronchi di alberi innevati, parti di recinti, masi di montagna, sono appena accennati, con tratto incisivo e sintetico dall’artista Piero Vezzi che ‘vive’ questi luoghi ogni anno, come una ricorrenza”.
Una “ricorrenza”, o una “feria” come dicevano gli antichi e come forse intendeva Marianello Marianelli, nel suo scritto sui pontaegolesi, dove anche con una punta di toscana ironia, chiede a Vezzi di fargli il ritratto, una volta magari che sarò morto: “…sarebbe di conforto anche per me. Potrei sperare… di poter tornare coi morti in ferie al mio paese”. Il grande germanista certo non aveva visto la splendida collocazione attuale delle opere, perché altrimenti avrebbe insistito.
Infatti non siamo più nell’abside di una chiesa (forse non troppo poetica), adesso il luogo non è più consacrato dalla fede, ma se ne avverte la sacralità: è un “tempio” del lavoro umano, con le sue grandi capriate, le enormi finestre, un’altezza fuori misura, un luogo che trasuda di storia e dove questi volti e il corpo che ci sta sotto, acquistano tutta la loro potenza. Sono realizzati in bianco e nero, senza sfondo alcuno, con pochi elementi di contorno, più spesso con niente di più del loro sguardo. Il disegno ha dietro una sorta di retinatura, Vezzi ha ingrandito delle fotografie, ha ritagliato dei particolari, offrendo alla fine non un iper realismo, ma l’esatto contrario, proprio perché la maestria dell’esecuzione, ha creato un sorta di straniamento, che ha distanziato i soggetti rappresentati. Sono, come qualcuno ha scritto: “monumenti silenti”, non raccontano le loro piccole vite, sono essi stessi questa vita.
Come abbiamo detto l’artista non ha dato molto all’arte, seguendo solo alcuni progetti d’affezione, poi dedicandosi alla scuola e nella parte più recente della sua vita, ad un eccezionale impegno abitativo, con Zefiro, uno splendido spazio - adesso in piazza dei Leoni, a Empoli, di fianco al duomo di Sant’Andrea - dove presenta un importante campionario di stoffe per arredamento, ma anche tappeti antichi e oggetti d’arte, che decorano quel luogo con gusto raffinato.
Adesso comunque non vogliamo solo ammirare opere della sua storia d’artista - tra l’altro bellissimi disegni a pastello - Vezzi deve ancora impegnarsi almeno in un nuovo progetto: io avverto proprio nello spazio sacrale del suo bellissimo studio, un assoluto bisogno del corpo del Cristo morto, o meglio dei particolari di quel corpo, che Vezzi ha fermato nella loro drammaticità, ma anche ‘umanità’. Capisco che quel percorso - iniziato più di cinquant’anni fa - deve essere ancora concluso, Piero Vezzi ce lo deve, o meglio lo deve alla storia, non solo quella dell’arte.
Fonte: Ufficio stampa