Piazza Tiziana Cantone al posto di Farinata degli Uberti, la protesta femminista a Empoli
Lo scorso anno siamo state costrette dall'arrivo della pandemia in Italia a rimandare il nostro sciopero: solo azioni silenziose, in una città che si preparava al suo primo lockdown.
Dopo un anno siamo volute scendere nelle strade, riprenderci in sicurezza i nostri spazi di rivendicazione, per condividere con la città la nostra rabbia e la nostra voglia di costruire insieme un mondo nuovo.
Per questo lunedì 8 marzo in presidio abbiamo urlato le nostre ragioni, insieme a tante e tanti che si sono voluti unire, che si sono fermati ad ascoltarci, che ci hanno sostenute. Per questo abbiamo modificato la toponomastica cittadina, ed abbiamo voluto che i Leoni di Farinata degli Uberti, simbolo della nostra città, avessero i pañuelos della lotta femminista e transfemminista.
Alla stampa dedichiamo il nostro intervento sul linguaggio, tratto dal presidio dell'8 marzo:
Oggi, 8 marzo 2021, siamo qui per parlare, per denunciare la violenza, le ingiustizie, le discriminazioni che ancora oggi le donne continuano a subire. Siamo qui per gridare, anche se alcune di noi sono stanche, altre incazzate, altre ancora invece hanno davvero finito le parole.
Le parole. Le parole sono importanti. Per quanto a volte si pensi che i problemi siano “ben altri”, per quanto spesso dobbiamo sentirci dire da chi invece è abituato ad abitare “lo spazio del discorso” quanto sia superficiale la questione del linguaggio. Il linguaggio che include, il linguaggio che esclude. Il linguaggio, arma tagliente che uccide una seconda volta una donna uccisa per mano di un uomo. Il linguaggio che cambia e che fa paura, perché invade lo spazio. Una voce (la nostra) che si alza e fa paura, perché invade lo spazio.
Le parole sono lo strumento che l'essere umano ha in dotazione per rappresentarsi e per rappresentare il mondo in cui vive: l'assenza o la presenza di una parola in un discorso determina l'esistenza o la non esistenza di un elemento in una realtà percettiva. Sappiamo bene cosa significa sentirsi schiacciate dal peso delle parole, dalla loro assenza, dal loro abuso, e sappiamo bene il valore che hanno, e quanto siano schierate: perché parlare è sempre un atto politico. Quando parliamo eseguiamo una serie concatenata di scelte linguistiche che possono includere o escludere: sta a noi decidere. Decidere a chi ci stiamo rivolgendo. Decidere cosa mettere in primo piano, cosa in secondo.
Possiamo decidere di essere o meno testimoni attivi di una realtà che sta cambiando, perché ormai sono più di 70 anni che esistono avvocate, sindache, ingegnere, architette e direttrici. C'è da chiedersi quanto tempo parole come maestro e ostetrico abbiano tardato ad affermarsi. La risposta è semplice: non c'è stato nemmeno un secondo di esitazione: dal momento che esisteva un ostetrico di sesso maschile, esisteva la parola “ostetrico”! Non ne è seguito un acceso dibattito come quello odierno sul femminile delle professioni, che ci ricorda che anche lo spazio linguistico afferente all'ambito in cui lavoriamo ce lo dobbiamo conquistare da sole, centimetro per centimetro, perché, in quanto donne, niente ci è dato per scontato, niente ci viene regalato (tranne la mimosa l'otto di marzo!).
Quando parliamo possiamo decidere quale tipo di narrazione fare di un episodio, in che termini costruirla, quale tipo di legame causa-effetto suggerire. Per questo motivo rimaniamo ancora una volta allibite davanti agli ultimi e numerosissimi casi di violenza di genere (di cui, ricordiamolo sempre, il femminicidio è solo la punta dell'iceberg) e dalla narrazione che i media imperterriti continuano a farne, ricordandoci tristemente che una donna corre il rischio di essere nuovamente uccisa anche dopo il suo assassinio: con le parole scritte sui giornali le si può mancare di rispetto, la si può umiliare anche quando lei non è più tra noi.
Quando protagonista degli episodi di femminicidio torna ad essere il famigerato “raptus”, il “troppo amore”, “la gelosia”, stiamo nascondendo il colpevole, deresponsabilizzandolo. Quando riaffiorano nelle pagine dei quotidiani le immagini di un “buon padre di famiglia”, di un “compagno fragile”, stiamo cercando di suscitare empatia verso un assassino, evidenziandone la sofferenza, sottolineando la straordinarietà dell'accaduto. Le parole non sono mai neutrali, mai innocenti.
Il linguaggio è uno strumento complesso e allo stesso tempo semplice, ma dalla potenza enorme. Permea e modella la realtà in cui viviamo, suggerendone un'interpretazione e costruendone l'orizzonte comune. È uno strumento versatile e dinamico che si adatta al cambiare dei tempi e della società, accompagnandola e descrivendone i mutamenti. È uno strumento di cui siamo noi responsabili: nella sua “manutenzione”, nel suo aggiornamento.
Perché la lingua la facciamo noi parlanti. E prendercene cura è compito nostro. Di tuttI e di tuttE.
Fonte: Non Una Di Meno Empoli