Nello studio di Pietro Marchesi 'Tropei' con Andrea Mancini
Pietro Marchesi è morto a Pisa, venti anni fa, nel marzo del 2001. Era nato in quella stessa città il 31 dicembre 1939, ma ha vissuto per un lungo periodo a San Miniato, prima in una cella del Convento di San Francesco, poi per molti anni in via della Cisterna 2, a pochi passi da una gloriosa, anche se dimenticata, galleria d’arte, lo Spazio dell’Orcio, dove lo stesso Marchesi ha esposto più volte, sebbene con il nome di Tropei, nient’altro che l’anagramma del suo nome di battesimo.
Tropei era un ottimo pittore, anche se l’altro suo mestiere, quello di chirurgo dell’Ospedale di San Miniato - lì ha lavorato per gran parte della sua vita - ne ha un po’ oscurato la fama.
Chi lo ha conosciuto, anche superficialmente, ne ricorda una notevole altezza, ma anche il fare piuttosto elegante, diremmo signorile, una flemma, che in realtà non corrispondeva completamente alla persona, giacché Pietro Marchesi era un uomo vitale, avventuroso: non a caso negli ultimi anni della sua vita si è imbarcato su navi transoceaniche, come medico di bordo.
A San Miniato ha lasciato alcune opere importanti, sebbene quasi sconosciute: in particolare una enorme pittura murale dedicata al Cantico delle Creature, dipinta sul lungo corridoio settecentesco del Convento di San Francesco, quello interno delle celle dei frati. Un grande pannello (4 metri per 3) nella chiesa della Serra, ispirato all’Antico Testamento e due grandi pareti sulle opere di Misericordia, nella cappella dell’Ospedale di San Miniato, accanto ai dipinti di un altro importante pittore sanminiatese, cioè Dilvo Lotti.
Partiamo intanto da queste ultime, dal confronto tra la pittura sanguigna ed espressionista di Dilvo, e quella più sognata, metafisica - tra De Chirico e Chagall – di Tropei. Un evidente contrasto, in parte risolto dal soffitto dell’aula, tutto dipinto da Lotti, con suggestive nuvolette, che sembrano unire i due percorsi espressivi.
Le immagini di Tropei sono le stesse di sempre, rimandano ai suoi temi consueti: le piazze vuote o piene di personaggi di sogno, mediati da Circhi della mente più che della realtà. Spesso c’è un monumento al centro, come in De Chirico, ma anche come a San Miniato, in piazza Buonaparte, con il marmo che Luigi Pampaloni ha dedicato a Canapone, Leopoldo II di Lorena.
Questa piazza dovette interessare molto al nostro pittore, giacché la riprodusse molte volte nelle sue opere e soprattutto in tante incisioni: una piazza vuota, o anche colma di persone, con i ragazzi che giocano per la festa di San Rocco, nella buffa corsa, in cui si spaccano i cocomeri saltandoci sopra con il sedere.
Negli anni in cui Marchesi fu sanminiatese, partecipò in prima persona alle tante attività che caratterizzavano la cittadina, dalla Festa del Teatro (fu per lungo tempo membro del Consiglio dell’Istituto del Dramma Popolare, sotto la guida di don Luciano Marrucci) alle altre manifestazioni, come il Carnevale di San Miniato, per il quale - stavolta anima era Dilvo Lotti - realizzò la rivisitazione plastico pittorica dei grandi carri agricoli, che costituivano l’elemento principe della sfilata.
Nei prossimi mesi San Miniato tornerà ad occuparsi del lavoro di questo singolare artista, con una grande mostra voluta dalla Fondazione Istituto del Dramma Popolare e dai due figli di Tropei, che sono cresciuti e hanno studiato nella città della Rocca. Maria Serena, la più giovane, insegna letteratura inglese all’Università di Messina, mentre Simone insegna letteratura italiana a Princeton, tra New York e Philadelphia. Sarà questa un’occasione importante per rileggere l’opera di Pietro Marchesi, che a partire dagli anni della scuola aveva iniziato a disegnare e a dipingere, grazie ad un insegnante – Mario Rognini - che gli dedicò una particolare attenzione.
La vita di Tropei è stata abbastanza movimentata, analoga a quella di altri professionisti della medicina ospedaliera. Quello che però si deve almeno notare è che, nella maggior parte dei luoghi di lavoro, egli ha lasciato alcune opere, sempre di carattere religioso. Del resto non ha mai nascosto la sua profonda spiritualità, derivata almeno dal fatto che era figlio di due terziari francescani.
Tra l’altro, si possono ricordare le opere giovanili nella chiesa di Sant’Antonio a Pisa, la Via Crucis in un’altra chiesa, stavolta a Orbetello Scalo, il suo primo luogo di lavoro, e poi, naturalmente, i già citati grandi cicli di San Miniato, dove il “senso del sacro” è presente in modo ancora più esplicito.
La pittura murale del convento di San Francesco è realizzata a partire da una delibera della Curia generalizia dei Francescani, che gli affidò questo compito nel quale per mesi si sentì impegnato. Abitava del resto proprio lì, condividendo in parte la vita dei frati ancora presenti; e lì, aveva anche il suo studio, all’interno di una cella, dove ogni giorno si dedicava al suo mestiere di pittore.
Il Cantico delle Creature di Tropei si estende lungo una parete di parecchie decine di metri, realizzata con una grande felicità espressiva. Per quest’opera non si può far a meno di pensare ai capolavori che nei secoli hanno decorato spazi invisibili al pubblico, realizzati solo per una particolare devozione, per rispondere a precise esigenze spirituali.
La pittura ispirata all’intenso canto francescano, è spesso risolta usando colori molto delicati: rosa, bruno, azzurro, verde, tutti su tonalità piuttosto chiare, alla ricerca di un’armonia, mai del contrasto. Gli appunti che si potrebbero fare alla pittura di Tropei sono proprio tutti qui, ma sono la sua cifra espressiva, corrispondono ad eleganza fisica e intellettuale, anche ad una certa dolcezza, che si avvertiva nel personaggio.
In tempi successivi, intorno al 1977 (viveva ospite dei frati almeno dagli inizi degli anni 70) l’intera famiglia si spostò a San Miniato, e Marchesi dedicò alla pittura uno spazio all’interno della casa di via della Cisterna. Lì aveva un tavolo da architetto sul quale lavorava, mentre nel bel mezzo della sala da pranzo, trovò ben presto posto un grande torchio a stella, ora donato alla scuola di arti grafiche della Fondazione Trossi Uberti di Livorno. Certo un oggetto talmente ingombrante che non poteva restare lì a prendere la polvere. In effetti Marchesi ci ha lasciato una serie di incisioni, realizzate anche su indicazione e richiesta di don Marrucci che, proprio a partire dagli amici pittori, aveva aperto un importante casa editrice e appunto una galleria, tutte e due sotto la sigla dell’Orcio d’oro.
Ad una nostra domanda sulle modalità espressive di suo padre, Simone Marchesi, ha risposto nominando due artisti tedeschi, anche loro sanminiatesi, a partire proprio dai primi anni 70. Sto parlando di Karl Heinz Hartmann e Rosemarie Finck, sua moglie. Tropei era per loro un grande amico e ne apprezzava le sperimentazioni tecniche. “Dal loro esempio – dice Simone - viene... lo studio che si era costruito in casa, con le vasche per la morsura delle lastre di rame nello stanzino della scarpe, e il torchio che aveva comprato a Verona a troneggiare in salotto. La cartella ‘Il sogno dell'orologiaio’ - prima vera opera astratta di Tropei - nasce proprio in quel contesto”.
Certo sarà interessante misurarsi con una sua mostra antologica, dove si vedrà come l’esperienza dell’astrattismo segni le sue ultime opere, realizzate con pitture acriliche su supporti poveri, ad esempio il rovescio di lastre di faesite o gli ancora più semplici pannelli di truciolato.