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Nello studio di Dilvo Lotti

Dilvo Lotti a San Miniato

È uno degli studi d’artista in cui ho passato più tempo, ci sono stato infinite volte, a partire dalla fine degli anni Settanta, fino praticamente a ieri, anche dopo che Dilvo Lotti era scomparso, ospite di sua moglie Giuseppina, oltre che moglie, musa ispiratrice, suo supporto in tutto, amatissima per ogni sua espressione, celebrata in infiniti quadri, ma anche in libri e libercoli, racconti e poesie.

Ci andavo soprattutto nel tardo pomeriggio prima di salire a cena, la sua casa studio – oggi diventata casa museo, per opera del Comune di San Miniato - si trova a pochi metri da casa mia, le nostre finestre quasi si toccano, con un salto potrei arrivare sulla loro grande terrazza.

Su Dilvo e poi su Giuseppina (Geppinella, come la chiamava Dilvo) ho realizzato due film a cui tengo molto, sono pieni di poesia, perché i due protagonisti ispiravano pensieri e immagini di forte liricità.

Dilvo Lotti era nato a San Miniato, il 27 giugno del 1914 e lì è morto il 22 aprile del 2009. È stato soprattutto un grande pittore, ma ha fatto anche altre cose, altre opere legate al suo mestiere, lo scenografo, il regista teatrale, il grafico, l’urbanista. Nel senso che ha realizzato una serie di interventi nella città, non solo con il colore, anche con muri, edicole votive, affreschi e ceramiche. Anche lui – come altri – artista a tutto campo, che non si è mai fermato davanti a nulla.

All’inizio degli anni 40 era addirittura andato a Milano, per disegnare Topolino, ma quasi subito è rientrato a casa, si è dichiarato alla sua Beppina, anche se – Beppina ci teneva a sottolinearlo – aveva un’altra fidanzata.

Alcuni quadri sono davvero importanti, anche se la sua fama è abbastanza circoscritta, Dilvo ha sempre rifuggito il successo, è sempre vissuto in provincia, protetto dal suo ambiente, contento di affermazioni poco più che locali.

Oggi avrebbe bisogno di una vera riscoperta, anche perché le sue opere sono lì, sotto gli occhi di tutti, sono il suo stesso paese, San Miniato, dove ha realizzato vari cicli di affreschi, ma soprattutto interventi di vero e proprio arredo urbano, ad esempio nella sistemazione del monumento a Maria Maddalena d’Austria, ritrovato senza testa, né braccia sotto la piazza del Seminario, e fatto sistemare da Dilvo, che allora rappresentava la Sovrintendenza.

C’è appunto un triangolo di case, tra via Pietro Rondoni, via de’ Mangiadori e via Angiolo Del Bravo, dove lui ha lavorato con maggior lena. Intanto il colore posato sulle case con maestria d’artista, poi l’immaginetta in cima alla salita, il grande crocifisso in ceramica invetriata, il monumento a Maria Maddalena, che assomiglia a un pezzo di marmo, ma che – se si è attenti – nasconde le forme di un abito femminile.

Tutto questo è Dilvo all’esterno, perché dentro le chiese che sono lì nei dintorni e dentro le case, i suoi colori sono ancora presenti e fortissimi. Non è questo il luogo per parlarne, occorrerebbe uno spazio indubbiamente maggiore.

Era figlio di una scuola fiorentina che faceva capo a Francesco Chiappelli e a Pietro Parigi, frequentata nei primi anni 30 e che, da subito, gli aveva aperto le porte di un cattolicesimo inquieto e di un lavoro di illustratore sulle tante riviste che animavano la città.

Era sempre rimasto legato a questi due artisti, soprattutto al secondo che da subito era diventato il formidabile xilografo degli splendidi manifesti dell’Istituto del Dramma Popolare, incarico che poi lasciò allo stesso Dilvo, che ha eseguito altrettanto interessanti lastre di linoleum, stampate ogni anno per gli spettacoli di San Miniato.

Ma non vorrei entrare, se non appunto in modo superficiale, dentro i molti mondi che Dilvo ha attraversato nella sua vita d’artista, qui mi piacerebbe dare il senso della sua casa e di quello che, all’ultimo piano era il suo studio.

Intanto questa casa esiste ancora, in ogni sua parte, grazie – come abbiamo già scritto – all’Amministrazione comunale, che vorrebbe farne un vero museo, aperto al pubblico. Si parte dal seminterrato, dove Dilvo conservava le sue opere più vecchie, ma dove si apriva anche una terrazza coperta, che negli ultimi mesi è stata usata dall’Associazione Moti Carbonari per una serie di seguitissime serate di poesia.

A questa terrazza si accede anche dal Vicolo del Bellorino, che porta alla valle sottostante. Proprio tra la casa e la valle, stanno due enormi cipressi che, insieme alla sua Geppina, Dilvo aveva piantato tanti anni fa.

I due alberi si alzano, di fianco ad una serie di elementi che decorano quel piccolo spazio. Sono più alti della casa che, d’altra parte, assomiglia ad una antica torre, poche le stanze per ogni piano, se non quello all’altezza della strada, dove a fianco di una cucina soggiorno, c’è un salone di una certa ampiezza, sovrastato da una grande terrazza, che guarda verso la valle e, appunto, ai cipressi.

Alle pareti del soggiorno, Dilvo ha appeso sue opere, ma ha anche affisso brani grafici quasi strappati dai muri e messi lì a decorare lo spazio e a denotare un grande gusto compositivo. Oltre che per il pranzo, questa stanza era un luogo di ritrovo, di accoglienza: le persone, gli ospiti, in genere si fermavano lì, a chiacchierare e a compiere i tanti altri gesti della quotidianità.

Più in là, dopo alcuni scalini sovrastati da una volticciola affrescata di angioletti, si apre quello che è un primo studio di Dilvo, usato anche questo per dipingere.

Uno spazio non altissimo, ma piuttosto grande, dove erano sistemate molte opere, una scrivania, molte cartelle di grafica, alcune grandi librerie e anche quella specie di statue lignee che Lotti aveva realizzato nei primi anni Settanta, soprattutto per il Carnevale di San Miniato.

Anche questa un’altra sua fissazione, l’idea di un Comitato per le manifestazioni popolari, che ha fatto nascere o rinascere alcuni eventi a cui la città è restata legata, come il Corteo Storico, la Festa degli Aquiloni e appunto il Carnevale.

Dilvo gli aveva ridato vita usando dei vecchi carri agricoli, che gli artisti trasformavano in qualcosa che assomigliava ad una grande allegoria rinascimentale, immagine stessa dell’opulenza.

Una di queste statue rappresenta ad esempio Raffaella Carrà, che risponde al telefono: Dilvo non aveva limiti, ogni cosa poteva trasformarsi in arte, bastava lavorarci con la fantasia, anche i programmi televisivi più commerciali, andavano bene: univano il basso del gusto popolare, all’alto dell’espressività degli artisti, qualcosa che avrebbe valore anche oggi.

Dagli scalini, di cui abbiamo detto, si va verso il piano di sopra, dove oltre alla terrazza, c’è una piccolissima camera, lì abitava mamma Giulia, la madre di Dilvo. L’altra stnza – lì di fronte – è la camera di Dilvo e Beppina, decorata con tutta una serie di elementi aerei, oltre che pienissima di opere alle pareti. C’è infine un’ultima stanzetta di passaggio, che conduce all’ultimo piano, verso la luce e i tetti delle case.

Questo è lo studio, pieno di grandi librerie, ma anche di molte opere in genere su cavalletti. Verso la strada si aprono grandi finestre, mentre dalla valle la luce quasi non arriva. È il luogo di lavoro di Dilvo, il suo tempio, coperto da travi scolpite da quel bravissimo artista del legno, nonché fraterno amico di Lotti, che era Rolando Filidei.

In questo spazio Dilvo mi ha accolto spesso, raccontandomi le storie della sua vita, gli incontri importanti con artisti come Courbet e Rembrandt, Picasso o Guttuso, ma anche intellettuali e uomini di cultura, come Papini o Spadolini, che vollero venire a trovarlo. Per il secondo, ricordo le auto dei Carabinieri fuori di casa, aspettavano il primo ministro in visita semi ufficiale in casa Lotti.

Quando ho girato il mio film su di lui, che si intitolava “Via Maioli n.22”, cioè l’indirizzo di questa casa, Dilvo ha voluto ritrarmi (conservo ancora la sua opera). Nel film ci sono delle immagini che riguardano proprio le fasi di lavoro, l’artista

dipingeva con l’opera nel verso giusto, ma ad un certo punto poteva anche rivoltarla completamente, riuscendo a dipingere assolutamente al contrario.

Una specie di tipografo della tela, che riesce a leggere e a scrivere da qualsiasi parte, soprattutto dalla parte opposta alla consueta.

Cronaca di Andrea Mancini

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