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Wilma Rudolph, dalla paralisi alla gloria olimpica
Quando il presidente John Fitzgerald Kennedy seppe che si trovava a Washington per ritirare un premio, la invitò alla Casa Bianca. Di punto in bianco. La ragazza fu accompagnata dalla madre e nelle fotografie di rito le si vedono entrambe sul divano della Stanza Ovale. Il presidente fu così rapito dal magnetismo, dalla grazia e dal fascino della giovane ospite da dimenticare il suo successivo appuntamento, che fu procrastinato di oltre mezz'ora. Le confessò di essere rimasto incollato al televisore per guardarla correre e le domandò di raccontargli la storia della sua vita.
La donna che aveva stregato JFK era Wilma Rudolph, che l'estate precedente aveva dominato i Giochi di Roma ed era diventata la prima atleta americana a conquistare tre ori olimpici. La sua strepitosa e inaspettata ascesa era più che altro indebitata con la testardaggine della mamma e di un appassionato allenatore di atletica leggera. Wilma nacque il 12 giugno 1940, ventesima di una nidiata di ben ventidue figli generati dal padre in due matrimoni. Fin da piccola, aveva angosciato i genitori per la salute estremamente cagionevole: aveva preso la polmonite, la scarlattina e altre malattie. Poi, fu colpita dalla poliomielite e il medico le predisse che non avrebbe più camminato. La famiglia abitava a Clarksville, nel Tennessee, dove non esisteva un ospedale che curasse i neri nell'America della segregazione razziale, ma la madre - una donna determinata che integrava il salario da facchino del marito con il lavoro di domestica - fu consigliata da un conoscente di rivolgersi al Nashville General Hospital. Due volte la settimana, madre e figlia si sobbarcavano 150 chilometri per le necessarie terapie di recupero. A casa, poi, quarantadue mani si rivelarono una risorsa preziosa: fratelli e sorelle si alternavano su Wilma con massaggi quotidiani per riattivare le fibre muscolari. A 12 anni, la bambina dismise la scarpa ortopedica e il tutore in metallo che portava fin dall'infanzia. Fu una seconda nascita: libera dagli impacci fisici e psicologici, la fresca adolescente sbocciò in un'atleta armoniosa e potente, che in primis eccelse nel basket.
Proprio sul parquet, la vide Ed Temple, il coach della velocità della Tennessee State University, ruolo che si era guadagnato perché nessun altro lo voleva. Gli fornirono un budget di appena 1.000 dollari e gli rifiutarono un ufficio, che Temple si ritagliò sulla congestionata scrivania della moglie, impiegata alle poste del campus. Negli anni '50, le ragazze che praticavano sport non erano riconosciute dalla NCAA e non beneficiavano di borse di studio, perciò Temple si ingegnava per procurare loro qualche lavoretto part-time. Se per giunta erano "negre", come allora si diceva e come era il caso delle velociste della Tennessee State, dovevano superare ben altri ostacoli: erano abituate ai cartelli "Whites only", sapevano che lungo le autostrade non avrebbero trovato che pochi e squallidi motel dove ristorarsi, erano consapevoli di dover filare dritte in ogni occasione. Quando viaggiavano, avevano adottato un loro gergo, al contempo casto e deprimente: se qualcuna gridava all'autista "Via per i campi!", il pullman accostava e le ragazze si accovacciavano in disparte ai lati della strada per il necessario e periodico sollievo; quando si avvicinavano alla destinazione, Temple gridava "Sistematevi!", il che significava togliersi i bigodini, passarsi il rossetto e aggiustarsi capelli e vestito. Le Tigerbelles, come erano soprannominate, avevano perfezionato l'arte di tirarsi a lucido per non offrire il destro a critiche o lamentele, e spesso venivano scambiate per un gruppo di coriste. Si erano adattate agli allenamenti draconiani e alla dura disciplina di Temple un po' bofonchiando, un po' rassegnandosi, un po' ringraziandolo per il suo rigore. Quando proprio non ce la facevano più, o avevano bisogno che un orecchio femminile si mettesse in ascolto, si confidavano con la signora Temple e la scrivania "unica" acquistava il senso letterale di una conduzione unitaria della squadra.
In tal modo addestrata, allenata e accudita, Wilma si mutò in una snella, flessuosa e levigata campionessa, che appena sedicenne meritò il viaggio per le Olimpiadi di Melbourne, dove conquistò il bronzo nella staffetta correndo nella cruciale terza frazione. Negli anni successivi, divenne la star dell'università. Decise di lasciare la pallacanestro (per quanto nel suo anno da matricola avesse tenuto una media di 32 punti a partita), si concentrò sulla corsa e inanellò successi e record in giro per il paese. Nel 1958, rimase incinta e il suo sogno di vincere l'oro olimpico parve tramontare per sempre. Coach Temple aveva un motto cui ricorreva spesso: «È breve la strada fra una pacca su una spalla e un calcio nel sedere!». Si atteneva a una regola ferrea: non voleva madri nel gruppo, ma fece un'eccezione per la sua stella. La sorella Yvonne si offrì di crescere la neonata per il tempo necessario e Wilma fu riaggregata alle Tigebelles.
Il primo alloro romano lo vinse il 2 settembre 1960, nei 100 metri, dopo aver rimediato una distorsione alla caviglia nel riscaldamento. Se un refolo di vento superiore al limite consentito non l'avesse invalidato, il tempo di 11 secondi netti le sarebbe valso il record mondiale, inferiore di ben quattro decimi a quello detenuto dall'australiana Betty Cuthbert. Quando salì sul podio, onorata dal presidente del CIO Avery Brundage, tutto lo stadio era già in adorazione, al pari di molti milioni di spettatori nelle loro case. Le Olimpiadi di Roma furono infatti le prime a essere diffusamente teletrasmesse. La RAI rilanciò in tutto il mondo le immagini degli eroi e delle eroine dello sport sullo sfondo dell'incantata "Città Eterna". Con un acuto senso di marketing turistico, alcune competizioni furono collocate nei millenari siti imperiali: la Basilica di Massenzio e le Terme di Caracalla ospitarono rispettivamente il torneo di lotta e il concorso di ginnastica, mentre sull'Appia Antica si corse parte della maratona, che terminò sotto l'Arco di Costantino. Nonostante il CIO pensasse fin dal 1956 alla vendita dei diritti televisivi, l'incertezza e una certa ingenuità del governo olimpico finirono per lasciare alla RAI l'incombenza e i guadagni delle trattative commerciali, che furono concluse con la statunitense CBS, con l'Eurovisione e con la giapponese NHK. Il CIO spuntò la miserrima percentuale del cinque per cento!
Le immagini che avevano stregato il presidente Kennedy erano irradiate in differita dalla CBS per una media di 75 minuti al giorno. I nastri registrati volavano sopra l'Atlantico sulla quotidiana rotta fra Ciampino e New York, dove venivano convertiti nel codice televisivo americano e - se il traffico aereo era benigno, i venti propizi, le tempeste estive a riposo - comparivano sugli schermi statunitensi fra le 20 e le 21, ma più spesso verso mezzanotte, soprattutto se occorreva più del dovuto per scongelare le pellicole che avevano viaggiato a cinquanta gradi sotto zero nelle stive degli aeroplani. Il tutto, nell'era aurorale della comunicazione satellitare, appariva come un'autentico prodigio tecnologico.
La televisione trasformò Wilma Rudoplh in una sensazione planetaria. Tutti ne erano affascinati e innamorati. Il giovane Cassius Clay le faceva la posta fuori dal villaggio olimpico, lo sprinter azzurro Livio Berruti le teneva la mano in lunghe passeggiate idilliache, i tifosi la riconoscevano per strada e la imploravano per scattare una foto ricordo. La stampa non se ne occupava che per idolatrarla. Piaceva a tutti, persino ai sovietici impegnati in un aspro duello contro il nemico ideologico per primeggiare nel medagliere: chi ne sottolineava le straordinarie qualità atletiche, chi ne enfatizzava la commovente parabola biografica, chi cedeva al suo irresistibile savoir-faire.
Se c'era un'ombra in un quadro altrimenti estatico, un'incrinatura che corrompeva una felicità quasi completa, albergava nel cuore stesso della magnifica creatura. Dopo il trascinante bis nei 200 metri, a ritmo di record olimpico, l'aura di Wilma occupava ormai tutta la scena, oscurando le altre Tigerbelles. Niente di sorprendente, solo un po' di invidia e gelosia nell'animo delle compagne di avventura che erano rimaste fuori dalle finali della velocità. E però niente di rassicurante in vista della staffetta veloce. La "Gazzella nera" era sensibile abbastanza da avvertire questa nuova elettricità nella relazione con le amiche e comprese che c'era un solo modo per neutralizzarla: portarle all'oro nella 4x100.
L'8 settembre, lo stadio straboccava di folla, la maggior parte accorsa proprio per l'ultima esibizione della ragazza tutta gambe e fianchi. Nello spogliatoio, Martha Hudson, Barbara Jones e Lucinda Williams si strinsero attorno a Wilma Rudolph e pregarono insieme sotto lo sguardo paterno di Temple: «Datemi il testimone, non preoccupatevi di niente; datemi solo il testimone!», le rassicurò Wilma. Scambiarsi il bastoncino in venti metri di pista, fra chi arriva al massimo della velocità e chi si alza dai blocchi in un'accelerazione veemente: è sempre un'operazione non proprio agevole, spesso non eseguita alla perfezione, soprattutto se la tensione obnubila la mente e zavorra i riflessi. E così capitò, sull'anello in terra battuta dell'Olimpico. Williams corse la curva come non aveva mai fatto, con l'adrenalina a mille e le tedesche nel mirino. Rudolph fu forse sorpresa dalla rapidità della compagna e la mano protesa all'indietro solcò l'aria invano. Piuttosto che mancare l'appuntamento o perdere il testimone, rallentò quasi fino a fermarsi, cedendo terreno prezioso alle rivali. Ma aveva una missione da compiere e in sessanta metri agguantò il gruppo e tagliò il traguardo in splendida solitudine. Poche ore dopo, il quartetto maschile statunitense, largamente favorito per l'oro nella stessa gara, fu squalificato per passaggio irregolare del testimone.
Alle vittorie olimpiche, seguì un lungo tour in Europa. Le Tigerbelles tornarono alla Tennessee State solo alla fine di settembre. Furono accolte dal gaudio di 5.000 studenti e dagli elogi del governatore Buford Ellington, lo stesso che due anni prima aveva conquistato il Tennessee con una campagna segregazionista. Le celebrazioni a Clarksville furono il primo evento ufficiale integrato nella storia della città, come da precisa richiesta di Wilma Rudolph. Di fronte a più di 10.000 persone, dichiarò: «In ogni mio sforzo sono stata ispirata da due motivazioni: rendere giustizia alle persone che credono in me e usare il mio talento fisico per la gloria di Dio e in omaggio alla femminilità».
Wilma Rudolph morì di cancro nel 1994. Da molti anni, le donne - bianche e nere - praticavano sport su un piede di parità con gli uomini e se potevano farlo dovevano ringraziare anche una memorabile pioniera, che aveva aperto le porte per tutte loro in una calda estate romana.
Paolo Bruschi