Studiare il cervello dei pesci per capire come funziona il Parkinson sull'uomo
L’invecchiamento è il principale fattore di rischio per demenza e malattia di Parkinson. Aggregati di proteine danneggiate si accumulano nel cervello con il progredire dell’età finendo con il compromettere la funzione dei neuroni. Ricercatori della Scuola Normale di Pisa e del Leibniz Institute on Aging - Fritz Lipmann Institute di Jena, in Germania, hanno studiato il cervello del killifish (Nothobranchius furzeri), un pesce che vive solo pochi mesi, per scoprire i meccanismi dell’invecchiamento neuronale.
Da anni ormai un filone di ricerca del Laboratorio di Biologia della Normale, diretto da Antonino Cattaneo, studia infatti i meccanismi dell’invecchiamento utilizzando animali con aspettativa di vita assai breve, un aiuto fondamentale per concentrare in tempi limitati ricerche che altrimenti dovrebbero protrarsi per decenni. Questo ambito di ricerca è coordinato da Alessandro Cellerino, professore associato di Fisiologia alla Scuola Normale.
In questo nuovo studio, pubblicato sulla rivista Molecular Systems Biology e oggetto del progetto di perfezionamento di Mariateresa Mazzetto, ora postdoc a Yale, i ricercatori hanno analizzato cervelli di killifish di tre diverse fasce di età: giovani pesci sessualmente maturi (5 settimane dopo la schiusa), pesci adulti senza caratteristiche di invecchiamento e pesci vecchi che già mostravano segni di ridotta funzionalità cerebrale.
I ricercatori sono stati in grado di delineare una progressione di eventi il cui fattore scatenante è la precoce diminuzione nell'attività del proteasoma, un macchinario cellulare che elimina le proteine danneggiate e che è fondamentale per il “controllo qualità” all’interno della cellula.
I pesciolini che hanno mostrato la più marcata diminuzione nella attività del proteasoma hanno anche mostrato una più breve vita rispetto a quegli individui che non hanno mostrato tale perdita di attività.
“La difficoltà insita negli studi sull’invecchiamento – spiega Cellerino - è che molte funzioni diminuiscono progressivamente e contemporaneamente e sinora è stato impossibile ricostruire la catena di cause ed effetti che infine genera i deficit fisiologici. Il nostro studio ha identificato la perdita di funzione del proteasoma come un primum movens”.
“Siamo riusciti a quantificare quasi 9000 proteine in un unico esperimento. Grosso modo la metà di queste cambia la sua concentrazione durante l’invecchiamento” dice Alessandro Ori, che dirige un gruppo di ricerca presso l’Istituto Leibniz per gli studi sull’invecchiamento. Gli stessi campioni sono stati analizzati anche tramite sequenziamento degli RNA ed è stato quindi possibile confrontare le variazioni nella concentrazione di ogni data proteina quantificata con la variazione del corrispondente RNA”.
“In generale, si assume che la concentrazione di una proteina sia determinata principalmente dalla concentrazione del corrispondente RNA. Ciò accade infatti in animali giovani, ma abbiamo scoperto che durante l’invecchiamento le variazioni di RNA e proteine diventano indipendenti, e questa è stata una sorpresa!” dice Cellerino.
“Le Scienze della Vita nell’ultimo decennio sono state rivoluzionate dall’introduzione delle tecnologie “omiche” che generano ingenti quantità di dati e che hanno messo l’approccio quantitativo –da sempre cifra principale della formazione dei normalisti- al centro anche dello studio del vivente. Negli ultimi anni ci siamo sforzati di formare biologi che siano a loro agio tanto in laboratorio quanto di fronte ad un computer ed ora cominciamo a vedere i risultati”. Cellerino tiene il corso di Neurogenomica ed è coordinatore del perfezionamento in Neuroscienze.
Fonte: Scuola Normale Superiore