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Tokyo 2020, arrivederci all'anno prossimo

Il Giappone deve rinunciare momentaneamente ai Giochi. Era già successo nel 1940

(Questo post è una versione multimediale dell’articolo uscito il 28 marzo scorso su Alias, il supplemento settimanale di il manifesto)

Il rinvio delle Olimpiadi di Tokyo al 2021 è un unicum nella storia moderna della creatura del barone De Coubertin. Da che furono riesumati, nel 1896, i Giochi non sono mai stati sospesi a lungo o rimandati, pur al prezzo di urticanti polemiche: si turarono il naso per Hitler nel 1936; sorvolarono sull'assassinio di centinaia di studenti in piazza delle Tre Culture a Città del Messico nel 1968; metabolizzarono il bagno di sangue seguito al sequestro della squadra israeliana da parte dei terroristi palestinesi a Monaco di Baviera nel 1972, né furono più di tanto turbati dal boicottaggio africano (Montreal 1976, per protesta contro l'apartheid di Pretoria) e da quelli speculari di Mosca (1980) e Los Angeles (1984) fra gli opposti blocchi ideologici sul finire della Guerra fredda. Too big to fail come Citigroup o Morgan Stanley, fra le banche salvate nel 2008 con i soldi dei contribuenti statunitensi, le Olimpiadi si sono fermate solo in occasione dei conflitti mondiali.
Per un'infausta coincidenza, anche nel 1940 la kermesse a Cinque cerchi avrebbe dovuto tenersi nella capitale del Sol Levante. In un paese nel quale non esisteva neanche la parola “competizione”, lo sport e la pratica dell'educazione fisica erano arrivati all'inizio del Novecento, nel processo di modernizzazione che il Giappone aveva intrapreso per stare al passo con la civiltà occidentale. Dopo la Prima guerra mondiale, le Olimpiadi presero a simboleggiare la connessione fra valori agonistici e prestigio nazionale e le contese sportive incorporarono gli ideali di progresso, successo e modernità. Nell'azione del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), si mescolarono internazionalismo e nazionalismo, cosmopolitismo e patriottismo, e organizzare le Olimpiadi divenne segno dell'appartenenza all'elite delle potenze mondiali. Un ristretto novero di cui il Giappone aveva tutte le intenzioni di far parte, con le buone o con le cattive.
Nel 1931, l'esercito giapponese aggredì la Manciuria ed estese la guerra al resto della Cina. In risposta alla pur blanda condanna da parte della Società delle Nazioni, che chiarì che l'Occidente non avrebbe lasciato spazio alle mire colonialiste di Tokyo, il Giappone intraprese un'offensiva diplomatica per ottenere i Giochi del 1940, da cui si aspettava almeno due ricadute extra-sportive: la mobilitazione delle masse popolari in appoggio alla politica imperialista del governo e la possibilità di accreditarsi come potenza espansionista. La manovra trovò una sponda a Roma, all'epoca assai favorita come sede delle stesse Olimpiadi. L'ambasciatore Sugimura visitò Palazzo Venezia nel febbraio 1935, rappresentando al duce il desiderio di organizzare le Olimpiadi del 1940, a 2600 anni dalla fondazione della dinastia imperiale. Mussolini assicurò il suo appoggio e il ritiro della candidatura italiana: in cambio, il Giappone avrebbe sostenuto Roma per l'assegnazione dei Giochi del 1944. Ancora più importante per l'Italia, nel do tu des politico-diplomatico, era la neutralità giapponese verso l'attacco militare che il fascismo stava per sferrare in Etiopia, come dimostrò un telegramma che Mussolini spedì a Sugimura, a pochi giorni dall'offensiva nel Corno d'Africa, in cui ribadiva l'impegno dell'Italia per la buona riuscita della candidatura di Tokyo. L'assegnazione dei Giochi alla capitale giapponese fu decretata nel giugno 1936, a poche settimane dalle Olimpiadi di Berlino. Con la prospettata candidatura di Roma per l'edizione del 1944, si può ben dire che l'alleanza tripartita che avrebbe acceso le polveri della Seconda guerra mondiale si era ben prima delineata nell'arena sportiva.

Cadaveri di civili sulle sponde del fiume Qinhuai durante il massacro di Nanchino

Contrariamente a quanto farebbe pensare il senso comune, la rassegna nipponica non fu formalmente cancellata per lo scoppio delle ostilità belliche, né corse tale rischio per la precedente e rinnovata aggressione del Giappone alla Cina, che nel dicembre 1937 culminò nel massacro di Nanchino, uno dei più efferati delitti del XX secolo, quando l'esercito giapponese sterminò forse 500.000 civili, abbandonandosi a stupri di massa, atrocità innominabili e feroci devastazioni. In un celebre discorso tenuto a Chicago, il presidente americano Roosevelt parlò allora di mettere in “quarantena” le nazioni che spargevano per il globo il virus del bellicismo, ma il CIO continuò a ritenere che le operazioni militari sarebbero ovunque cessate prima dell'accensione della fiamma olimpica, prevista per il 21 settembre 1940. In realtà, l'ammontare di denaro richiesto, le complessive ore di lavoro da svolgere e l'immane sforzo organizzativo sfuggivano completamente agli inesperti giapponesi, benché il Comitato olimpico avesse inviato schiere di consulenti affinché offrissero - si direbbe oggi - il proprio know-how. Il governo militar-nazionalista di Tokyo aveva ben altro a cui pensare e si guardò bene dal fornire le garanzie e l'aiuto richiesto. Anzi, il Ministro della Salute, fra gli altri, dichiarò che sarebbe stato un crimine spendere soldi per l'intrattenimento di migliaia di atleti e spettatori stranieri invece che per preparare la gioventù nipponica alla guerra.
Il CIO prefigurò scenari disonorevoli per il Giappone e l'Asia intera: se le Olimpiadi non fossero andate in porto, il paese avrebbe patito una cocente perdita di prestigio agli occhi del continente - sul quale pur intendeva esercitare un'incontrastata egemonia - e del mondo intero. Il governo non cedette e il 16 luglio 1938 annunciò ufficialmente la cancellazione delle XII Olimpiadi, che furono prontamente riprogrammate a Helsinki, prima che la deflagrazione su grande scala della Seconda guerra mondiale ne impedisse lo svolgimento. Sarebbero tornate in Finlandia nel 1952 e a Tokyo nel 1964.

Paolo Bruschi

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