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#QuarantenadiLibri, riscoprire Shirley Jackson
Una #quarantenadilibri continua.
Ormai, stando a casa tutto il giorno, tutti i giorni come voi, lascio libri ovunque. Trovo romanzi in luoghi improbabili e faccio esperienze mistiche con gli elettrodomestici, per lo più senza senso. Mi consolo pensando che anche voi siete nella mia stessa condizione emotiva, al limite della stravaganza, per non dire stranezza, o follia. Come si dice: mal comune.
Ergo: leggo, continuamente. Leggo mentre faccio cose. Leggo pensando che gli oggetti in casa possano ascoltarmi o addirittura rispondermi. (Sì,follia è il termine più corretto, credo). Sapete chi altri faceva lo stesso? Quale scrittrice stava sempre a casa e parlava con gli elettrodomestici, il cibo, il tostapane, la teiera e le sue pantofole? Shirley Jackson. Una scrittrice americana, molto amata del celebre Stephen King, proprio lui: il narratore per eccellenza dell'horror letterario, considera la Jackson sua maestra letteraria. King disse che lei, la Jackson, era capace di trasmettere con la sua scrittura brividi ed emozioni senza aver bisogno di usare sofisticati ingranaggi letterari.
«A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce», con questa dedica, l'autore di IT, ha omaggiato un libro che si chiama L'incendiaria. Shirley Jackson era una scrittrice strampalata. Narratrice eccentrica e bizzarra che dovendo restare a casa tutto il giorno per prendersi cura dei suoi quattro figli e del marito, passava il tempo a raccontarsi storie. Lo faceva mentre sbrigava le faccende domestiche, stendeva il bucato e preparava la cena, e solo quando tutto era in ordine, i suoi figli a scuola e il marito, Stanley Edgar Hyman, un rinomato critico letterario e docente di letteratura dell'università di Bennington, a lavoro, lei si dedicava alla scrittura.
Per realizzare i suoi romanzi prendeva spunto proprio da tutti quegli oggetti che le tenevano compagnia durante le sue lunghe giornate: pomodori, scope, tazze, lampade, padelle. Il che potrebbe sembrare banale, tuttavia nei libri della Jackson ogni elemento banale, ogni oggetto di uso quotidiano si trasforma in qualcosa di magico. Cominciava a vivere e ad avere un'anima. Tutto acquisisce un potere amuletico, per usare un neologismo che mi piace tanto. Lei si definiva una strega, forse anche per le sue passione per l'occulto. Predilige protagoniste femminili, sorelle o amiche, tutte con trascorsi ingarbugliati e difficili rapporti con la madre. Lei stessa ebbe un travagliato rapporto con la sua, Geraldine, che le rimproverava di non essere abbastanza femminile nei modi e nei gesti.
Shirley fin da piccola era stata una bambina ribelle, diversa dalle altre. Non le interessava piacere alla gente, ma solo essere se stessa. La letteratura era lo svago principale delle sue giornate. Un momento profondissimo di evasione. Il luogo dove poter sperimentare le sue stranezze. L'orrore, la paura, il buio, la notte, i sogni, i sussurri, le inquietudini, i refoli di vento nei suoi romanzi acquistano un suono di incantesimo. Vibrano e scuotono le parole. Si trasformano in emozioni. Stati d'animo, immagini, percezioni, dubbi. La letteratura per la Jackson era una forma di vendetta contro coloro che le avevano fatto del male: la madre , i vicini di casa che la criticavano spesso, gli uomini che l'avevano tradita. Il legame più forte restava quello con la casa e gli oggetti contenuti in essa. La casa diventa un rifugio, una protezione, un luogo assolutamente privato. E tutto ciò che essa conteneva , dentro quelle mura era al sicuro. Ma anche una gabbia, una scatola alienante nei confronti del mondo da cui restava estranea.
Succede così anche in "Abbiamo sempre vissuto nel castello" Mary Katherine Blackwood, chiamata da tutti semplicemente Merricat, ha diciotto anni e vive con la sorella Constance, il vecchio zio Julian costretto a muoversi sulla seria a rotelle, e il gatto Jonas, fedele compagno di Merricat. I tre abitano alla periferia di un paese della campagna americana, in una casa tanto grande da sembrare un castello. Quello è il loro rifugio e il loro paradiso. Nessuno esce da quella casa, solo Merricat. L’unica ad avere contatti con il mondo esterno. Due volte alla settimana infatti, si reca al villaggio per fare rifornimento di cibo e libri che non restituisce quasi mai perché tutto ciò che entrava in quella casa veniva come inghiottito, iniziava a vivere con loro. Constance, da sei anni, non varca l'uscio di quella dimora perché qualcosa all'esterno la terrorizza.
Lo zio Julian invece, trascorre le giornate a gironzolare per le stanze con la sua sedia a rotelle e provando a scrivere una fantomatica autobiografia, mettendo insieme i ricordi frammentati. La gente del villaggio si guarda bene dall'avvicinarsi alla casa dei Blackwood. Li evita per via di una sinistra tragedia avvenuta sei anni prima, quando i genitori delle due fanciulle, Constance e Merricat, insieme con il loro fratello più piccolo e la moglie di Julian muoiono misteriosamente per avvelenamento da arsenico. Tutti considerarono Constance colpevole di quel misterioso incidente e da quel giorno, la ragazza costretta ad una forzata reclusione, non è più uscita da casa.
Tutti i personaggi del romanzo sono affetti da manie ossessive: lo zio Julian cerca di scrivere, riscrivere, la propria biografia per provare a ricostruire i fatti della sua vita; Merricat non si stacca dal suo gatto, dai suoi amuleti, dall’idea che lei debba proteggere la sorella; Costance è maniaca della pulizia, dell’ordine e soffre di agorafobia. Nessuno dei tre riesce a muoversi liberamente: lo zio Julian è sulla sedia a rotelle, Costance è agorafobica e Merricat, quando esce per raccogliere la verdura o fare acquisti in paese, ripercorre sempre la stessa strada e non vede l’ora di tornare a casa. Le due donne vivono in sincronia, quasi in simbiosi gemellare, in solitudine dal resto del mondo, come se fossero la stessa persona. Perché è proprio questa l’impressione che ho avuto terminando il libro, che fossero l’una il prolungamento dell’altra. O addirittura la stessa persona, con età differenti.
La casa – negli scritti della Jackson – ha una rilevanza importantissima. E' un ambiente sicuro. L’odore di cibo buono si scioglie nell’aria, ogni cosa è pulita, e il tempo sembra essersi fermato. Ogni cosa ha un suo ordine e gli abitanti della casa fanno in modo che resti tutti esattamente come è. La ripetizione e la ciclicità delle giornate scandisce il tempo con gesti sempre uguali e controllati.
Il tempo passato e quello presente sono legati da nodi segreti che solo loro conoscono e proteggono con gelosia morbosa. La Jackson infatti non permette neppure al lettore di penetrare completamente in quel mistero, né di svelarlo. La casa custodisce i segreti, protegge i suoi inquilini dagli intrusi. Distacca i suoi abitanti dal mondo esterno, li isola, li aliena, fino a possederli. "Abbiamo sempre vissuto nel castello" è un romanzo stregato, e strega chi lo legge.
Margherita Ingoglia