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Carlo Parola, l'uomo sulle figurine
Nel secolo dell'immagine e degli sport di massa, era solo questione di tempo prima che qualcuno combinasse la forza della raffigurazione con la potenza immaginifica del calcio, avviando un prospero business e una storia d'amore globale, alimentati dalla passione di bambini e ragazzi di ogni età.
All'inizio degli anni '60 del secolo scorso, l'Italia era da poco uscita dalle penose ristrettezze del dopoguerra e si trovava nel bel mezzo del "miracolo economico", la prolungata fase di crescita che trasformò il paese in una potenza industriale. Un paio di fratelli da una numerosa famiglia di Modena, Giuseppe e Benito - nati durante il ventennio mussoliniano, come rivela il nome del secondo -, acquisirono un lotto invenduto di figurine di calciatori e le rivendettero in mazzi di quattro in bustine distribuite alle edicole. I nuovi, famelici consumatori, creati proprio dal boom economico e nascosti in ogni appassionato del pallone, comprarono oltre tre milioni di pacchetti, consentendo il varo di un ancor oggi fiorente produzione industriale. Nel 1961, il primo album ufficiale della Panini SpA vide la luce.
Il fortunato progetto editoriale poggiava sui tipici fattori alla base proprio dello spettacolare sviluppo produttivo di quegli anni: un'intera famiglia votata al successo dell'impresa, con i quattro fratelli a dividersi le posizioni societarie di vertice (non risulta invece che le quattro sorelle fossero impegnate nell'azienda); la creatività tipica della tradizione artigianale italiana, che nelle fasi aurorali del processo suggerì di mescolare le figurine da inserire nei pacchetti in un contenitore in origine realizzato per la produzione del burro; la stretta connessione con il tessuto delle piccole e medie imprese del territorio; il ruolo centrale svolto nei primi tempi nella fase dell’impacchettamento dalle lavoratrici a domicilio (tradizionalmente poco remunerate e con bassa o nessuna tutela assicurativo-previdenziale), secondo un modello assai diffuso in altri settori trainanti dell'insorgente industria nazionale.
La prima "Grande Raccolta Figurine Calciatori" aveva in copertina Nils Liedholm, l'asso svedese del Milan, vincitore di un oro olimpico ai Giochi di Londra del 1948 e finalista nell'edizione casalinga dei Mondiali del 1958, superato dal solo Brasile di Pelé (che aveva dovuto recuperare uno svantaggio iniziale propiziato proprio da una rete di Liedholm). L'elegante centrocampista si era appena ritirato, dopo aver illustrato una gloriosa carriera soprattutto come componente del celebre trio "Gre-No-Li", insieme ai connazionali Gunnar Nordahl e Gunnar Gren. L'immagine sulla copertina non era però una fotografia, ma un disegno ricavato da un'istantanea scattata al giocatore. Pochi anni dopo, nel 1965, comparve sull'album Panini l'immagine di un altro calciatore, colto nel momento supremo di una plastica rovesciata, così spettacolare da divenire il ben noto logo dell'azienda modenese. Il calciatore era il centrale juventino Carlo Parola, che come Liedholm era famoso per la sportività e la grazia dello stile. In ossequio a uno schema ormai sperimentato, l'acrobatica figura era un disegno ricavato da una fotografia scattata il 15 gennaio di 70 anni fa.
Quel giorno, era in programma la prima giornata del girone di ritorno della Serie A. La Juventus incontrava la Fiorentina in trasferta. Secondo l'opinione dei maggiori cronisti che fecero il viaggio nel capoluogo toscano, non fu niente di speciale, fatta eccezione per un rigore mancato dal viola Sergio Cervato sul finire dell'incontro e per la magistrale prestazione di Parola. Nelle parole di Vittorio Pozzo, l'ex commissario tecnico della Nazionale, vincitore di due Rimet nel 1934 e nel 1938, nonché della medaglia d'oro alle Olimpiadi berlinesi del 1936, e riciclatosi come giornalista per "La Stampa", il difensore bianconero era in un autentico stato di grazia, in cui rifulgevano sia le notevoli capacità tecniche che l'impeccabile attitudine al comando. Né era da meno la vigoria fisica, come testimoniato per l'appunto dalla sua caratteristica rovesciata a forbice, che - proprio a dire del giocatore - «sortiva l'effetto di mettere fuori causa l'avversario, sottraendo la palla da sotto il suo naso quando ormai pensava di averne il pieno controllo».
Il magnifico gesto fu catturato per l'eternità da un fotografo fiorentino di nome Corrado Banchi, il quale di fatto confermò il risaputo aforisma di Democrito, per cui ogni cosa nell'universo è frutto del caso e della necessità. Nei dintorni del terreno di gioco, Banchi non occupava un posto particolarmente invidiabile, ma dopo l'intervallo ebbe la... necessità di espletare un bisogno fisiologico. Non potendo allontanarsi, scelse come toilette la vasca piena d'acqua della “riviera” dei 3.000 siepi e così facendo si trovò per caso dietro la rete difesa dal portiere juventino. Fu un attimo, che lui stesso raccontò così: «Parte un lancio di Magli verso Pandolfini. Egisto scatta, tra lui e il portiere c'è solo Carlo Parola; l'attaccante sente di potercela fare, ma il difensore non gli dà il tempo di agire. Uno stacco imperioso, un volo in cielo, una respinta in uno stile unico. Un'ovazione accompagna la prodezza di Parola».
Abile e fortunato nell'azionare l'otturatore una frazione di secondo dopo l'impatto del piede con la palla, Banchi conferì all'inquadratura un senso di forza e dinamicità memorabili. Quella foto, la magnifica prospettiva colta dall'obiettivo, l’armoniosa posa del difensore simile a quella di un angelo librato in cielo, non parve all'autore alcunché di sensazionale e fu venduta per 3.000 lire, pari a circa 60 euro odierni. Niente male per un solo click, ma assai poco per un'immagine che sarebbe stata riprodotta in centinaia di milioni di esemplari. Come già detto, trasformata in un plastico disegno e modificata nei colori così da rendere irriconoscibile il protagonista, divenne il simbolo della popolarissima raccolta e fu stampata per sempre sulle bustine. Ogni singolo collezionista in procinto di emettere il rituale "Celo-celo-manca" avrebbe prima dovuto strappare quell'ubiquitaria icona, con ogni probabilità ignorando l'identità del campione che vi era immortalato.
Carlo Parola era nato a Torino nel 1921 e aveva scelto il football dopo un tentativo con il ciclismo. Rimasto orfano a sette anni, fu assunto dalla FIAT meno che maggiorenne e trovò posto nella squadra del Dopolavoro aziendale. Da lì - unico caso nella storia -, pur restando alle dipendenze della famiglia Agnelli, transitò nei ranghi della Juventus: saputo dell'inaspettato "cambio di lavoro" e dell'incremento esponenziale dello stipendio, l'incredula madre ebbe quasi un mancamento!
Con sole dieci presenze in azzurro (l'ultima delle quali ai Mondiali del 1950, da cui fu presto estromessa un'Italia indebolita dai vuoti lasciati dalla recente tragedia di Superga), acquisì comunque una solida reputazione internazionale. Fu infatti incluso nella formazione del Resto d'Europa, peraltro brutalizzata da una selezione britannica nell'amichevole organizzata per salutare il ritorno nella FIFA delle federazioni d'Oltremanica. Erano ancora gli anni del sussiegoso isolamento albionico, che sarebbe terminato proprio con la Coppa del Mondo successiva (in modo infausto, tuttavia), e gli inglesi nutrivano un ben radicato sentimento di superiorità nei confronti delle compagini continentali. Tale convincimento, è bene precisare, non riguardava solo il calcio. Il Regno Unito, bastione della vecchia Europa, aveva resistito alla possente spallata della Germania nazista e aveva infine trionfato all’interno di un’alleanza trans-continentale che aveva in larga misura contribuito a creare. Dopo la guerra, Londra considerava i francesi puerilmente inadeguati a darsi governi stabili, i paesi del Benelux praticamente irrilevanti e gli ex nemici tedeschi e italiani tutt’al più meritevoli di insegnamento. I legami con il Continente erano sporadici, e così desideravano i sudditi di Sua Maestà, che ben di rado traversavano la Manica per viaggiare in Europa.
La partita di Glasgow del 10 maggio 1947, giocata ad Hampden Park di fronte a una folla di 137.000 persone e presentata dalla stampa britannica come un’agevole sgambatura per gli eroi di casa, riassunse simbolicamente la prevalente psicologia popolare: il “resto d’Europa” non poteva semplicemente tenere il passo, non nella politica, non nella cultura e meno che mai nel calcio. Finì 6-1, con l’ultraquarantenne Stanley Matthews a portare scompiglio sulla fascia destra e i continentali vistosamente impacciati, anche per le difficoltà di comprensione fra i giocatori dei diversi paesi. Proprio un approssimativo scambio verbale con il portiere francese, provocò un’autorete di Parola, che nonostante l’infortunio e l’umiliante passivo fu salutato unanimemente come il migliore in campo fra gli ospiti, tanto da spingere il Chelsea a offrirgli un lucrosissimo contratto, che l’italiano decise di declinare.
Lo stesso Parola ha sempre ricordato quella prestazione come la più luminosa della sua carriera e la definitiva consacrazione del suo raffinato talento. Antonio Ghirelli, che produsse negli anni ‘50 la prima vera storia del calcio in Italia e trent’anni dopo divenne il capo ufficio stampa del Presidente della Repubblica Sandro Pertini e poi del Presidente del Consiglio Bettino Craxi, così lo descrisse nella sua opera: «Educato alla scuola tecnica e stilistica della Juventus; alto, snello e robusto nella persona, alieno da ogni durezza nei contrasti e incline piuttosto all’acrobatismo e all’eleganza; ricco di spirito agonistico e di fair play; padrone come pochi altri del palleggio e sempre disposto al passaggio costruttivo piuttosto che alla respinta affannosa, non si saprebbe citare un calciatore […] più armonioso di Parola. La sua debolezza, accentuatasi naturalmente col declino fisico, consistette semmai proprio in un eccesso di cavalleria e in un certo elegante esibizionismo, che sono entrambi difetti pregiudizievoli nel gioco moderno».
Parola disputò più di trecento gare con la Juventus fra il 1939 e il 1954, vincendo due Scudetti e una Coppa Italia. Negli anni ‘70, fu chiamato sulla panchina della “Vecchia Signora” e da allenatore conquistò un altro campionato. Fu congedato al termine della stagione 1975-76, quando un’imprevista serie di tre sconfitte consecutive dissipò un vantaggio di ben cinque punti e consegnò il titolo ai rivali cittadini del Torino.
Morì nel 2000, quasi dimenticato da tutti, ma non dall’amico ed ex compagno di squadra Giampiero Boniperti, che per l’ultimo viaggio provvide ad annodargli al collo una cravatta della Juventus.
Paolo Bruschi