GoBlog - Valerio Vallini
Un suicidio mancato - Storia estiva sui bei tempi del Berlusca
In Pinko, la depressione si era fatta strada lentamente. All’inizio fu mitigata dall’estensione “erga omnes” del non pagamento della tassa di successione. A lui non ne sarebbe venuto nulla per quei quattro mattoni da lasciare a nessuno, ma ciò che contava era il principio: una inversione di tendenza dai vecchi governacci “comunisti” che piombavano come sciacalli sulla salma del morto. Un godimento sottile che gli penetrava nella pancia era dovuto alla glorificazione della civiltà occidentale contro quei talebani islamici che insaccavano e insaccano le donne nei “burka”. Anche qui non gliene importava più di tanto visto che lui preferiva petti virili a quelle svergognate a coscia lunga con le chiappe traboccanti in tivvu e sui muri.
Ancora una volta contava il principio: quei beduini che minavano alle radici la gloriosa civiltà cristiana avrebbero trovato pane per i loro denti. L’astro del Berlusca continuava a brillare. Ma dove la sua beatificazione del “regime” raggiungeva il culmine, era nel vedere grossi crocifissi imbrillantati , argentati e sfolgoranti, fra le tette straripanti (e gli veniva pure la rima), delle annunciatrici, delle attrici, delle meretrici pentite. Potete immaginare con quanta foga egli si facesse crociato per l’esposizione del crocisso e nelle scuole e negli ospedali e in ogni luogo dove la presenza del sacro simbolo testimoniasse duemila anni di verità rivelata e di vittorie sul male.
Le prime crepe alle sue certezze furono dovute alla faccia sempre più cupa e tormentata e avvilita del ministro Tremonti che nonostante il nome bellicoso non faceva più tremare neanche i gatti, anzi pareva essere invaso da una tremarella ogni volta che doveva spiegare i conti e le voragini e le tasche vuote di questo governicchio già vecchio.
“O non doveva essere il ben godi? O le tasse non le avrebbe pagate nessuno? E tutti a consumare, a sperperare a godere…” Anche Pinko capì che Tremonti aveva un bel trastullarsi sulle colpe dei D’Alema e dei Prodi. Le casse erano vuote e per riempirle bisognava far la corte ai ladri e ai distruttori, e giù condoni a tutto spiano dalle tasse evase alle edificazioni selvagge, e pensare che lui (il nostro Pinko), per quelle due finestre abusive, per poco non lo arrestavano. E i processi? E le accuse infamanti e non provate? Certo la “congiura delle toghe rosse” era dura a morire: i giudici stessi erano fior di settari, ma che tutte, proprio tutte quelle accuse, e che accuse!, fossero state inventate, era duro da buttar giù.
“Chi sa le manfrine e le manovre che ci sono sotto-si consolava sospirando.”
Giorno dopo giorno, nonostante equilibrismi e scusanti, la depressione cominciò a farsi cupa e densa. Scoppiò improvvisa quando gli tolsero il “Rosso”: quel Santoro, sul quale scatenava ogni volta che lo vedeva, tutte le sue rabbie e le sue fobie.Ora con chi prendersela? Con quel tremulo del Socci che si sentiva lontano un miglio che lo imbeccavano? Con quel Vespa che una volta lo faceva godere perché c’era La Russa e poi l’avrebbe ammazzato per tutte quelle gran dame, Busi in testa, e le prime donne sgargianti, assolute, solari?
Proprio sotto Natale, la depressione si fece fortissima: gli era rimasta per traverso una rospata del Bossi sull’unità nazionale. Una rospata alla quale il suo amatissimo, vezzeggiatissimo Fini, non aveva risposto.
Deluso negli affetti e nei pensieri, Pinko fu trovato appeso all’albero di Natale con due palle colorate al collo, un boa di paillettes attorcigliato alle spalle, e una calzamaglia di nero pece indossata su mutandine di pizzo bianche. Berlusca addio! Era scritto sul muro con un graffito nerissimo e deciso.
Nonostante tutto Pinko sopravvisse. Restò intubato per qualche mese ma poi si sbalordì della sua nuova vita: tutte le sere a battere al parco delle Cascine, lungo i viali e su verso il piazzale Michelangelo. Una notte con il chiaro di luna, lo trovarono spiaccicato contro un tiglio, centrato da un SUV guidato da un albanese sbronzo.
Storia 'estiva' finora inedita di Valerio Vallini