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Santa Croce nei giorni della 'Liberazione'

Il tempo trascorreva tra paure e speranze e l’attesa che gli Angloamericani venissero a liberarci, si faceva sempre più vicina e desiderata. Nel frattempo noi ragazzi, cercavamo di giocare nel modo più spensierato possibile, anche se la guerra ci aveva messi alla prova, e andavamo perfino a fare il bagno nella vicina Usciana.

Un pomeriggio mentre ci tuffavamo nell’acqua, in prossimità di una cateratta, passò nel cielo la solita leggiadra “cicogna”; l’esperienza, anche se eravamo piccoli, ci indusse a rivestirci in fretta e a scappare. Facemmo alcune centinaia di metri e il finimondo si accanì proprio dove un minuto prima eravamo noi. Vedemmo saltare in aria gli alberi che costeggiavano l’Usciana, e gli “shrapnell” che scoppiavano in aria disseminavano la zona di schegge infuocate. Tornammo a casa senza scomporci più di tanto. Al contrario gli abitanti delle case nei pressi, si spaventarono enormemente. Finalmente arrivò il mese di settembre, e una sera, passata la mezzanotte, sentimmo un sommesso scalpiccio: erano i soldati tedeschi che lasciavano la linea del fronte sull’Arno, sembravano ombre appesantite dal loro equipaggiamento, erano soldati che a coppia camminavano nei solchi lasciati nella strada dal continuo passare dei carri agricoli.

Mio padre più esperto (aveva fatto la guerra di Libia 1911/1912, quella del 1915/1918 e nel 1936 in Africa Orientale) disse categoricamente: “ La guerra è finita, questa mattina andremo a casa!”. E fu così.

Passammo da alcuni dei nostri parenti in Via Donica, verso le una di una bellissima giornata di sole. Mio padre impaziente, insieme a me volle andare in paese. Superammo le macerie di fondo di porta, trovammo case e concerie minate dai tedeschi, prima di abbandonare la linea del fronte.

Perfino alcuni bottali emergevano dalle macerie. Entrammo nell’odierno Corso pieno di detriti di ogni genere, e di fronte alla via delle “Cento Donne” [via Genovesi ndr], trovammo la “Paniera” raccoglitrice all’epoca di pelli di coniglio e parlammo brevemente con lei. Più in là in via del “Demei”, prima del campanile della Collegiata semidistrutto, trovammo “Baldoria”, che lasciammo per andare sull’Arno alla ricerca dei soldati liberatori.

Ci affacciammo al muro e guardammo il fiume, quieto e inconsapevole degli avvenimenti passati e presenti. Il sole riverberava sulle piccole onde mosse dal vento, mandando a noi un argentato riflesso, ma degli anglo-americani nessuna traccia. Scendemmo nuovamente giù nel corso e tra lo sconvolgente intrigo di vetri, fili e calcinacci. In uno scenario quasi surreale, andammo in direziono di Castelfranco e ci fermammo di fronte al super cinema “Lami”. Soli, io e mio padre, increduli ed esterrefatti, all’altezza di Villa Pacchiani, vedemmo una colonna di carri armati che si avvicinava. Mio padre emise una flebile frase: “La guerra per noi è finita”.

Il primo carro americano arrivato alla nostra altezza si fermò, dondolando per la frenata. Un soldato dalla torretta ci chiese in italiano se vi erano ancora tedeschi, la nostra immediata risposta fu: “No! Non ce ne sono”. Il carro e tutta la colonna, sferragliando si mise di nuovo in marcia. Entrarono nel corso, lo percorsero fino alla piazza della chiesa della Collegiata, si immisero in Via Turi e poi su Fossi, evitando le grosse buche causate dalle cannonate, entrarono in via Roma, per recarsi nell’odierna via di Pelle dove si fermarono per catturare sei soldati tedeschi armati delle loro mitragliatrici.

Intanto il paese deserto, come per incanto e timidamente si riempì di gente festante, la vita riprendeva il suo corso, sembrava dimentica di quanto accaduto fino ad allora, prevalse immediatamente il desiderio, di ricominciare a vivere, l’ottimismo superava l’enormi difficoltà che ci attendevano. Mancava tutto e tutto era da rifare. Per capire quei momenti bisogna averli vissuti, ma almeno eravamo liberi.

Gli anglo-americani pensarono immediatamente al sostentamento alimentare della gente. La ricostruzione del paese e la ripresa dell’attività in special modo quella conciaria fu immediata: vecchi motori a scoppio principalmente a testa calda, trovati chissà dove, facevano rotolare i bottali per conciare le pelli con un rombo cadenzato che si protraeva notte e giorno.

I generatori ancora funzionanti della conceria Gabrielli e Grossi accendevano piccole lampadine elettriche in alcune parti del paese e del teatro Verdi con una luce gialla fievole, indecisa e lievemente traballante, sembrava volesse rappresentare la precarietà del momento, ma anche la ripresa di una nuova vita.

Da uno scritto di Carisio Barontini, a cura di Valerio Vallini

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