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Santa Croce e l'Arno: il rapporto della città col fiume

santa_croce_ponte_arno_ferro_2019_04_17_ Come scrive Angelo Nesti nella sua Breve storia di Santa Croce sull’Arno, Pacini Editore, 2009, “…fin dal medioevo, mulini, gualchiere, fornaci, cartiere, concerie e vetrerie, attingevano acqua dall’Arno con l’utilizzo delle steccaie costruite in legno o pietra. Il Callone a Castelfranco, ad esempio, forniva energia a due molini. Provvedimenti cinquecenteschi andarono in direzione dello sviluppo della navigazione e si attuò un complesso sistema fluviale con canali di collegamento che mettevano in comunicazione il neonato porto di Livorno con il Valdarno e Firenze. Dall’Arno si potevano raggiungere più agevolmente la piana lucchese e la Val di Nievole. Il fiume Usciana collegava l’Arno al Padule di Fucecchio.”

Santa Croce colse le opportunità di questo sistema e riuscì a sviluppare i primi servizi di navigazione nel corso del XVII secolo e anche prima se si pensa all’intenso traffico dal Callone a Castelfranco nei due sensi già nel luglio del 1575. Certamente da noi, nella seconda metà del XVIII secolo il settore era già strutturato: 55 capifamiglia trasportavano per vie d’acqua, si viveva anche di fiume. Nel XVIII secolo la famiglia Pacchiani gestiva il passo di Santa Croce che poi nel XIX° passò a Gaspero Pescini.

Navicellai e bardotti erano a bordo dell’imbarcazione principale: il navicello, battello che variava da 9 a 11 metri di lunghezza. I bardotti, in particolare scendevano e tiravano l’alzaia: una fune attaccata al navicello. La tiravano controcorrente da un percorso parallelo al fiume. Era un lavoro faticosissimo reso stupendamente da un’incisione di Giuseppe Viviani dove un corpo imbracato e teso dà il senso della fatica e della forza. I navicellai santacrocesi arrivavano con le loro barche al porto del Pignone vicino a Firenze, o a Signa, verso Nord-est, oppure raggiungevano Livorno con piccoli scali lungo l’Arno. Santa Croce aveva il Callaione: piccolo porto fluviale, poco più di un rimessaggio dotato di puntoni per l’ancoraggio, che mi pare di aver individuato fra S. Tommaso e l’attuale sbocco della rampa Lami grazie a testimonianze attendibili e analisi di vecchie foto. Qui trovavano riparo e ancoraggio le imbarcazioni del borgo che poi venivano tirate in secco nei periodi di piena massiccia. Nella seconda metà del Settecento, lo stato delle anime della parrocchia di San Lorenzo testimonia la presenza di costruttori santacrocesi. Così pure la relazione del Maire, il sindaco di istituzione napoleonica del 1809.

Nei secoli il corso dell’Arno è stato continuamente sorvegliato perché periodicamente le sue acque rompevano gli argini e provocavano danni ingenti. A tal proposito si legge in una nota a cura di Giancarlo Nanni: “il 7 novembre 1587 il perito Lorenzo di Giovanni rileva la necessità di costruire una possente muraglia a difesa dei malridotti argini. …il muro dovrà essere alto otto braccia e largo tre [circa 4m x 1,5] ed è assolutamente necessario perché si trova oggi il letto d’Arno alto quanto il piani del terreno di detto castello.” Si parla anche di togliere una torretta ‘ricontro alla fine del castello’ probabilmente il lato ovest verso porta Pisana. Troppo lungo sarebbe soffermarsi sulle inondazioni che hanno colpito Santa Croce da quella memorabile narrata dal Giovanni Villani del 1333 che deviò il corso dell’Arno, che allora passava sotto San Donato, provocando il crollo delle mura, a quella del 1966 sulla quale esiste una vasta e appassionata letteratura e documentazione. Per tornare al rapporto dei santacrocesi con l’Arno e vederne la fonte di vita che ne derivava basta accennare ad una nota di Cristiana Torti del 1787 in cui si racconta che l’agricoltura non bastava a soddisfare le esigenze della popolazione. In questo quadro preoccupante il commercio e i trasporti e quindi il fiume con cavatori e pescatori erano una possibilità di vita. Nel corso dell’Ottocento, l’Arno e le terre vicine fornivano buone argille per le fornaci. L’importanza del fiume balzò evidente nel 1833 quando una secca dell’Arno ridusse i movimenti dei navicellai provocando disagi e miseria. Fortunatamente andavano crescendo opifici e fabbriche. Con la costruzione della ferrovia Leopolda dal 1847 al 1853, si ridimensionò fortemente la centralità economica dell’Arno come idrovia naturale, ma per la mancanza di una stazione accessibile sulla riva destra, saranno ancora i navicellai a svolgere un discreto ruolo fino alla costruzione del ponte in ferro sull’Arno nel 1892 e alla sistemazione rotabile della via arginale per San Romano. In quegli si hanno notizie da Ignazio Donati nel Diario Montopolese, di rivolte di navicellai, barrocciai, vetturali e contadini aizzati da padroni terrieri e un clero che vedeva nella ferrovia un pericolo per le tradizioni e la coltura delle viti.

Poi il fiume fu ferito quasi a morte dagli anni del boom economico a tutti gli Ottanta del Novecento. Le colpe venivano da monte: dal massiccio inquinamento di Firenze e Prato e di altre città rivierasche. La produzione di Santa Croce ebbe colpe a valle da Ponticelli e oltre. Finalmente, in quest’ultimo ventennio l’Arno è rinato. Il cattivo odore è scomparso, pescatori popolano le rive, cormorani e altri uccelli nidificano, una barca risale il fiume a Pontedera. Qui si tenta un luogo di ricreazione proprio dov’era il Callaione, davanti ai resti di San Tommaso che fu porto e villaggio. Il pericolo ora sono la siccità e il clima.santa_croce_ponte_arno_ferro_2019_04_17_2

Valerio Vallini

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